frame dal film "Four Daughters", presentato all'ultimo Festival di Cannes

non solo cinema

Film, riviste e pure cocktail. Così i sauditi vanno alla conquista di Cannes

Mariarosa Mancuso

Dalla tardiva riapertura delle sale nel loro paese, adesso i sauditi stanno cercando di risalire la china molto rapidamente. Quest'anno hanno investito 180 milioni di dollari attraverso diverse fondazioni nel Festival in Costa azzurra

"A Billion Dollar Opportunity”. Occasione allettante, per la gente del cinema sempre a caccia di finanziamenti. Valeva lo sforzo di presentarsi all’ora del breakfast – si sa che il numero di ore dormite in media dai buyer e dai produttori che affollano il Marché du Film è inferiore alle cinque per notte (dato fornito da una rivista specializzata qualche anno fa, non Si vedono segnali di cambiamento). Un breakfast, ebbene sì. Il calendario di appuntamenti a Cannes è affollato. E a invitare era l’Arabia Saudita, paese che immancabilmente ricorda la sintesi di Alberto Arbasino: “Niente alcool al bar, niente acqua nelle piscine” (ora che esistono i burkini, forse le vasche sono di nuovo balneabili).

 

I frequentatori di festival, e qualche spettatore, ricordano un film del 2012 intitolato “La bicicletta verde” di Haifa al Mansour. Primo film girato da una donna in Arabia Saudita, quando nel paese non esistevano i cinema dove vederlo: erano stati chiusi nel 1983, e sono stati riaperti solo nel 2018. Primo film in cartellone: “Black Panther” di Ryan Coogler con Chadwick Boseman. Molto rapidamente i sauditi stanno cercando di risalire la china. A Cannes non c’erano soltanto 180 milioni di dollari da investire – al miliardo si arriverà con gli anni. Era in parte finanziato dalla Red Sea Film Foundation il film d’apertura, “Jeanne du Barry” diretto da Maïwenn, attrice e regista franco-algerina. Scandaloso agli occhi del “woke people” internazionale perché Johnny Depp, (reduce assieme all’ex consorte Amber Heard da un clamoroso processo per violenze coniugali) era rimpannucciato e imparruccato da Luigi XV. I sauditi non hanno avuto niente da ridire, né sul nudo né sulla concubina, e sono entrati in un parco finanziatori piuttosto nutrito.

 

Un altro film in concorso a Cannes in parte finanziato dalla Red Sea Film Festival Foundation (ha più o meno gli stessi obiettivi dell’altra e quasi omonima fondazione, questa però organizza anche il Red Sea Film Festival, inaugurato del 2019) era “Four Daughters”. Semi-documentario girato dalla regista tunisina Kaouther Ben Hania, titolo originale “Les Filles d’Olfa”: racconta una madre di quattro figlie, immigrata in Francia dove lavora come donna delle pulizie. Vita di stenti, e nessuna integrazione con gli indigeni. Un giorno due figlie spariscono: si sono radicalizzate e in Libia si sono arruolate nell’Isis (ora stanno in carcere, e lì probabilmente resteranno per molti anni ancora).

 

L’Arabia Saudita ha comprato qualche copertina dei “daily” che vengono pubblicati a Cannes, versione quotidiana di riviste come Variety, The Hollywood Reporter o Screen International (che naturalmente compensano con articoli e sezioni speciali dedicati all’Arabia Saudita, ai progetti in corso, al 40 per cento di cashback – spendi cento, e in vari modi ti restituisco una parte del budget, per esempio con lo sconto sulle tasse. Così del resto funzionano le film commission, e il modello di finanziamento francese che tutti invidiano – tranne le registe come Justine Triet che ne godono, vincono la Palma d’oro a Cannes, e poi denunciano “la morte dell’eccezione culturale”.  Ha un ruolo importante nella volontà di creare un mercato locale per il cinema – e ancor di più di rendersi culturalmente presentabili agli occhi dell’occidente (non abbiamo dimenticato l’omicidio di Jamal Kashoggi, i diritti umani, i dissidenti in galera) – il progetto Neom. Un progetto da 500 miliardi su un pezzo di costa grande come il Belgio. I videogiochi li stanno già esportando: il modello coreano del soft power ha i suoi imitatori. E i sauditi si sono spinti fino a organizzare un cocktail con DJ.

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