“Killers of the Flower Moon”, a ottobre in Italia, dura quasi tre ore e mezzo e suona un po’ esagerato: grande tecnica, ma gli attori finiscono per somigliarsi tutti. Tra i debuttanti c'è invece la giovane promessa di Brooklyn, una Lena Dunham rediviva
Girare film allunga la vita, la schiera di ottantenni o giù di lì festeggiati al Festival di Cannes è lì per dimostrarlo. Orson Welles diceva: “Il cinema è il più bel giocattolo che un bambino cresciuto possa sognare”, e allora perché riporre il giocattolo in soffitta, rinunciando a palmette e leoncini alla carriera? Dopo Michael Douglas e Harrison Ford – Ken Loach è atteso venerdì dopo Marco Bellocchio – è arrivato Martin Scorsese. Portando con sé, fuori concorso, un western di quasi 3 ore e mezzo: “Killers of the Flower Moon”. Come sentiamo dire nel film – il suo ventisettesimo – “uno scherzo architettato dal buon Dio ai danni degli uomini bianchi”. Dopo tanto peregrinare dalle Grandi pianure all’Oklahoma, i nativi americani della tribù Osage – chiamati “indiani” nel film – scoprono il petrolio nella loro riserva. Obbligatoria la scena del grande spruzzo nero, che negli anni 20 fa diventare i vinti dei morti di fame clamorosamente ricchi. Bianchi e banchieri provano una certa invidia, malamente celata dai titoli dei giornali – e dai cinegiornali dell’epoca che mostrano automobili e pellicce.
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