La premiazione del doc "Navalny" (LaPresse)

trionfo amaro

L'Oscar snobba Zelensky e premia il doc su Navalny, che è una cartolina dal passato: i russi non si ribellano più

Anna Zafesova

Il documentario sul dissidente incarcerato sembra raccontare un'altra epoca, quando in Russia si poteva scendere in piazza, scrivere sui giornali, commentare su Facebook. Ma  il suo movimento si sta ormai perdendo in litigi e divergenze interne: oggi lotta contro Putin è quella degli ucraini

E’ stato un trionfo amaro, quello di Alexei Navalny premiato con l’Oscar per il documentario di Daniel Roher, e non solo perché mentre a Los Angeles consegnavano le statuette lui dormiva su una branda nella gelida cella della prigione di Vladimir. Quello semmai doveva dare più forza al messaggio dell’Oscar, portare l’inferno del Gulag sulla passerella più ambita del mondo, e far vincere un uomo che ha sfidato da solo il sistema. Un plot molto hollywoodiano, e la scena dei Navalny che salgono sul palco, con le lacrime che riempivano gli occhi enormi della figlia Dasha, mentre sua madre Yulia con la voce spezzata dall’emozione diceva al marito “stay strong, my love”, sembrava già tratta dal prossimo biopic sull’eroe della resistenza al regime di Putin. 


Quando il regista canadese Daniel Roher aveva iniziato le riprese del documentario che doveva raccontare la sfida di Navalny contro Putin – dall’avvelenamento in Siberia alla convalescenza in Germania, alle indagini sui suoi avvelenatori dei servizi segreti russi, fino alla decisione di tornare in Russia, andando incontro alla prigione – quello tra il sempre più popolare leader dell’opposizione e il sempre più appannato presidente russo doveva essere l’ultimo scontro per la democrazia e la libertà, che tutto il mondo avrebbe seguìto con il fiato sospeso.


Invece, il mondo segue con il fiato sospeso la resistenza dell’Ucraina, e il rifiuto dell’Accademia di invitare Volodymyr Zelensky, per il secondo anno di fila – a quanto pare con l’assurda scusa che quella degli ucraini contro l’invasione russa è una guerra tra bianchi e in quanto tale non è interessante per il mondo del politicamente corretto – suscita molta più indignazione e fa quasi più notizia. Una decisione che nel momento in cui il premio per il miglior documentario va a “Navalny” e non alla “Casa delle schegge”, il candidato ucraino che racconta di un orfanotrofio nel Donbas, diventa molto più di una gaffe, facendo sospettare al pubblico ucraino l’esistenza di un pregiudizio. Anche perché Navalny a Kyiv non viene visto come un eroe, nonostante la condanna della guerra, e la sua vecchia battuta sulla Crimea che “non è un panino per passarsela avanti e indietro” non gli viene perdonata. I social ironizzano anche sul look troppo glamour dei Navalny a Hollywood, contrapponendo le immagini delle vittime mutilate dei bombardamenti e delle esecuzioni dei soldati di Putin. E il fatto che né Roher né Yulia – per prudenza, per censura, per emozione, non importa – non menzionano la guerra mentre ricevono le statuette conferma agli occhi degli ucraini quello che già pensano dei “russi buoni”, che anche quando non sono putiniani restano indifferenti alla tragedia ucraina.


Una polemica che nulla toglie alla straordinaria vicenda di coraggio umano e innovazione politica di Alexei Navalny, che Putin ha temuto al punto da aver trasformato il suo autoritarismo in dittatura pur di schiacciare il suo movimento. Oggi, il documentario “Navalny” sembra un ricordo di un’altra epoca. Da una Russia dove non si veniva mandati per otto anni in carcere per la condanna di una guerra. Dove si poteva – a proprio rischio e pericolo – scendere in piazza, scrivere sui giornali, commentare su Facebook. Dove un genio della comunicazione poteva essere un politico irriverente che contava di portare il suo popolo in piazza per una rivoluzione europeista e pacifica, come il Maidan di Kyiv.

E’ proprio questo a rendere così triste la vittoria agli Oscar di Navalny. Il suo elettorato oggi è in carcere, o in esilio. Il suo movimento si sta perdendo in litigi, e l’ansia della “o-ne-stà” ha appena portato alle dimissioni di Leonid Volkov, capo di quel che restava della rete navalniana, inchiodato dalla lettera che aveva firmato per togliere le sanzioni dell’Unione europea contro l’Alfa Bank. Che Mikhail Fridman fosse il meno putiniano degli oligarchi russi è vero, e infatti la lettera è stata firmata anche da altri dissidenti, ma l’adesione di Volkov – che girava le capitali occidentali chiedendo di mettere all’indice la “lista dei 6000” collaboratori del regime – ha mostrato come indagare la corruzione dei potenti e fare politica siano due mestieri diversi.


L’applauso ad Alexei Navalny nella notte degli Oscar è stato fragoroso e sincero, ma è un applauso più al suo coraggio che alla sua causa. La battaglia contro la dittatura di Putin oggi viene combattuta sui campi dell’Ucraina, e nelle piazze di Tbilisi e di Chisinau. Non a Mosca. Per il momento, un Maidan russo appare impossibile, e se arriverà un regime change al Cremlino a portarlo sarà probabilmente più una congiura di ex fedelissimi che una rivolta dei russi. In attesa, la missione di Navalny per ora si riduce all’obiettivo di sopravvivere: non c’è dubbio che Putin gli farà pagare l’Oscar con nuove torture.