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riflettori sul "risvolto umano"

Buoni motivi per evitare il dietro le quinte del "Padrino" in "The Offer"

Mariarosa Mancuso

Pochissima è la voglia di vedere la miniserie in dieci puntate sui molti ostacoli che tormentarono la lavorazione del film di Francis Ford Coppola. Vengono le vertigini a pensare che anche la Hollywood di prima categoria comincia a cannibalizzare se stessa, pur di alimentare lo streaming

Il lettore di professione sa soprattutto quali libri non leggere, scrisse Giorgio Manganelli rifiutando “Il Padrino” di Mario Puzo (“Non l’ho letto e non mi piace” è invece da Manganelli attribuito all’editore Vanni Scheiwiller). Dovrebbe valere anche per lo spettatore-di-serie professionista, come siamo diventati un po’ tutti dopo il lockdown (lasciando la più difficile carriera di panificatori con grani antichi).

  

Manganelli non aveva nessuna voglia di leggere “Il Padrino” (sul film a nostra conoscenza non si pronuncia). Noi abbiamo pochissima voglia di vedere “The Offer”, miniserie in dieci puntate che Michael Tolkin ha scritto con Nikki Toscano: i retroscena, i pettegolezzi da set, i molti ostacoli che tormentarono la lavorazione del “Padrino” di Francis Ford Coppola. Il film ha compiuto 50 anni a marzo, e prima di applaudire il capolavoro del grande regista solo contro tutti bisogna sapere che la Paramount aveva offerto la regia a Sergio Leone, Peter Bogdanovich, Arthur Penn, Warren Beatty e Otto Preminger, che declinarono l’offerta.

 

Stava per rifiutare anche Coppola, che dopo due film d’insuccesso si era ritirato in California con l’amico George Lucas. Avevano fondato l’American Zoetrope, che avrebbe dovuto produrre film sperimentali lontani da Hollywood (quelli che gira adesso, per intenderci, finanziandoli con i soldi dell’azienda vinicola: titoli pochissimo interessanti come “Segreti di famiglia” o “Distant Vision”). Rimase fisso nel suo “no” finché il socio Lucas gli ricordò che avevano l’ufficiale giudiziario alla porta. Il lavoro alimentare per “Il Padrino” avrebbe aggiustato i bilanci e consentito di produrre più nobili e artistici film.

  

Non siamo contrari a “The Offer” perché manca la materia. Non abbiamo mai pensato che i film crescano in pace, senza ostacoli o difficoltà. Akira Kurosawa, interrogato da un volenteroso studente di cinema sul perché di una certa poetica inquadratura, rispose “da una parte c’era uno stabilimento della Sony, dall’altra passavano fili elettrici, e il film era in costume”.

   

Eravamo già contrari prima di leggere le recensioni, dove sta scritto per esempio che Dan Fogler nella parte di Francis Ford Coppola è imbarazzante (aveva recitato in “Animali fantastici - I crimini di Grindelwald”: J. K. Rowling ha il nostro sostegno quando la insultano, ma come macchina da bestseller sta diventando noiosa). Anche prima di accertare che all’origine di tutto c’è Albert S. Ruddy, il produttore esecutivo che ritirò l’Oscar e ora vuole raccontare le minacce mafiose e i litigi sul casting. Speriamo non si attribuisca quel che spetta a Robert Evans, capo della Paramount che chiese a Coppola di allungare il film: “Voglio sentire il profumo delle polpette”. Poi Evans fece “Chinatown”, prima aveva prodotto “Love Story” e “Rosemary’s Baby”.

  

Il monumento celebrativo dura dieci ore circa, quasi come i tre film di Coppola. E dire che lo showrunner Michael Tolkin, nel romanzo “I protagonisti” (poi un film di Robert Altman), aveva castigato produttori e sceneggiatori che per far soldi immaginavano “Il laureato 2”. Vengono le vertigini a pensare che anche la Hollywood di prima categoria – non i produttori e i registi che campano sui supereroi, la Marvel è stata pagata cara, e deve rendere – comincia a cannibalizzare se stessa, pur di alimentare lo streaming (da noi Paramount+ sta per arrivare).  

  

E quindi via con i dietro le quinte, o i making of. Tutta roba che distoglie dai film, e punta i riflettori sul “risvolto umano”, oggi l’unica cosa che sembra interessare. Tanti pezzi di vita, e i pezzi di torta che deliziavano noi spettatori chissà quando torneranno.