Al Sisi (Ansa)

Su Netflix l'Egitto combatte con divorzi e donne sole il conservatorismo di al Sisi

Rolla Scolari

La svolta conservatrice e religiosa degli anni ’80 ha trasformato il paese, ma il cinema ha sempre saputo riportare in superficie, nonostante regole sociali e costrizioni politiche, i cambiamenti della società

“È tutto sotto controllo”, dice Ola, lo sguardo a favore di camera, un sorriso forzato dopo una mezza scenata del marito alla guida dell’automobile, stressato dal  traffico rumoroso del Cairo. Ola si è finalmente sposata, non è più alla disperata ricerca di un marito come nel 2010, nella serie “Aiza Atgawwiz”, voglio sposarmi. La pellicola attaccava con ironia il tabù sociale in Egitto, e in buona parte del mondo arabo, di una donna di trent’anni senza ancora l’anello al dito. Ora Ola ha due figli con Hisham (“belli come il sole”), sua madre vive a casa con loro (“e dove sennò?”), lei ha sacrificato la carriera per la famiglia (“non hai ambizioni?”) ed è “molto felice”. Fino a quando Hisham le annuncia la sua intenzione di divorziare.

Il sequel di “Aiza Atgawwiz” è una nuova serie di Netflix, “Finding Ola”. L’attrice tunisina Hend Sabry, la stessa che aveva interpretato Ola oltre dieci anni fa, riporta in scena questioni che nel mondo arabo-islamico fanno ancora discutere e che suscitano le critiche dei conservatori, dei perbenisti di regime che governano anche attraverso le costrizioni sociali. Una donna sola, anche se a causa di un divorzio voluto dal marito,  solleva ancora perplessità negli anfratti più tradizionalisti della società egiziana.

 

Sono diverse le serie televisive arabe che da anni compaiono su Netflix, offrendo una finestra internazionale su una società spesso sconosciuta in Europa. Si tratta di riadattamenti delle lunghe serie televisive tradizionali, delizia del mese del digiuno islamico di Ramadan. A far discutere in questi giorni in Egitto è però un film: la prima pellicola araba su Netflix. “Ashab Wala A’az”, messaggi e segreti, non ha di originale per chi ha visto l’italiano “Perfetti sconosciuti”, film del 2016 diretto da Paolo Genovese. A parte il menu splendidamente arabo e l’ambientazione, un Libano intuito dall’accento dolce, tra un’indicazione stradale e l’altra, la pellicola di Nadine Labaki, regista di “Caramel” e “Cafarnao”, abituata alle controversie, è identica a quella italiana. Gli amici di una vita, che pensano di conoscere a memoria i segreti l’uno dell’altro, si incontrano a cena. Quando Maryam, la superstar del cinema egiziano Mona Zaki, propone di condividere per gioco messaggi e telefonate di ognuno, la tensione trabocca dietro alla goliardia di facciata. Il resto è la storia di diverse catastrofi, tra tradimenti svelati, coming out forzati, menzogne malcelate. 

 

Qui però ci interessa l’ossessivo interesse del regime egiziano per la versione araba di un film italiano premiato come miglior sceneggiatura proprio al Cairo film Festival nel 2016, ma oggi, nella sua versione araba, al centro di denunce da parte del ministero della Cultura. Dibattono del film in Parlamento: un deputato ha accusato la pellicola di “promuovere l’omosessualità”, in un Egitto in cui le discriminazioni contro la comunità lgbt sono quotidiane. C’è chi inorridisce sui social al solo pensiero del sesso fuori dal matrimonio quando uno dei personaggi non si arrabbia con la figlia dopo averle trovato in borsa i profilattici. È uno slip di pizzo nero, sfilato prima di uscire di casa di nascosto dal marito e scelto per accompagnare il sexting segreto, a scatenare sui social le critiche più dure alla stella Mona Zaki. Pesano anche, nell’affossare il personaggio di Myriam, la bottiglia di whisky nascosta sotto il lavello della cucina e il deodorante spruzzato in bocca per nascondere l’odore di alcol.

 

Negli anni ’50, ’60, ’70, quando cioè il cinema egiziano faceva sognare il mondo arabo, sul grande schermo c’erano baci, spalle scoperte, scollature che osavano quanto i veli delle danzatrici del ventre. La svolta conservatrice e religiosa degli anni ’80 ha trasformato l’Egitto, ma il cinema ha sempre saputo riportare in superficie, nonostante regole sociali e costrizioni politiche, i cambiamenti della società. Così l’adattamento cinematografico di “Palazzo Yacoubian”, romanzo di Ala’a al Aswany, affrontava già nel 2006 il tabù dell’omosessualità. “Ahasees” ha fatto scalpore perché indaga la sessualità delle donne; “Cairo Exit” perché racconta l’amore tra un musulmano e una cristiana. La lista è lunga: nel 2018, “Balash Tebosni”, non mi baciare, faceva riflettere sulla scomparsa dei baci nel cinema egiziano, e la serie tv “Sab3 Gar”, il settimo vicino, metteva in scena l’impossibile: una giovane single che vive da sola. Sono i temi di cui vorrebbero discutere i giovani in Egitto, dove oltre il 60 della popolazione ha meno di 30 anni. Sono donne e uomini cresciuti in anni di repressione, ma che ricordano le speranze spezzate di un’apertura mai arrivata dopo la rivoluzione del 2011. I loro stili di vita si scontrano con una società sempre più controllata, dove il conservatorismo è l’arma di un regime che, dal 2014, quando è salito al potere il rais AbdelFattah al Sisi, non perde occasione per restringere le libertà.

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