Una scena del lungometraggio di Bartlett Sher

L'arte del negoziato

Il regista del film “Oslo” ci racconta perché il fattore umano cambia la diplomazia

Simona Siri

Un israeliano e un palestinase chiusi in un castello, alle origini di un accordo storico: "Il calore mostrato dal pubblico dice che abbiamo bisogno di esempi di chi si sforza di far funzionare le cose, non di farle esplodere", dice Bartlett Sher

Tredici settembre 1993. Bill Clinton sul prato della Casa Bianca assiste alla stretta di mano tra Yasser Arafat e il primo ministro israeliano Yitzhak Rabin, dopo che Rabin e il negoziatore per l’Olp Abu Mazen hanno firmato una dichiarazione di reciproco riconoscimento. Un momento storico, un’immagine iconica che però non è il frutto esclusivo della diplomazia americana. In un momento in cui a Washington i canali ufficiali erano in stallo, gli accordi di Oslo sono figli di una trattativa segreta quanto rocambolesca guidata da due diplomatici norvegesi, Mona Juul e Terje Rød-Larsen, marito e moglie. La loro strategia: prendere un rappresentante israeliano (Yair Hirschfeld, professore universitario, poi sostituito da Uri Savir, in contatto diretto con il ministro degli Esteri Yossi Beilin) e uno palestinese (Ahmed Qurei, ministro dell’economia per l’Olp) e chiuderli in un castello nella campagna a 90 chilometri da Oslo. Costringerli a sedersi allo stesso tavolo, a mangiare e bere insieme, a scambiarsi aneddoti sui figli e sulla vita, scoprendo di avere più cose in comune che in conflitto.

 

Il lato umano della diplomazia, una storia così incredibile che sembra fiction e che infatti è stata trasformata prima in uno spettacolo teatrale di enorme successo vincitore del Tony Award e poi in nel film omonimo “Oslo” (disponibile on demand su Sky e in streaming su Now tv), sempre scritto da J.T. Rogers e diretto dal regista Bartlett Sher. E’ con quest’ultimo che abbiamo parlato, perché è grazie a lui e alla sua amicizia con Terje Rød-Larsen (le figlie andavano a scuola insieme) se questa storia è stata raccontata. “Conoscevo vagamente gli accordi di Oslo”, dice al Foglio, “ma sono rimasto colpito da ciò che è servito per portare queste due forze opposte nella stessa stanza. La situazione in medio oriente è così profonda e complessa che nessuno sembra ricordare un momento in cui c’è stato un inizio di soluzione, una chiamata al dialogo che di per sé è stata una rivoluzione. E tutto grazie all’approccio di Terje, che da norvegese era considerato neutrale. Lui credeva che se prendi due nemici e li costringi a parlarsi come esseri umani e a trascorrere del tempo insieme, li aiuterai a costruire la fiducia reciproca. L’intero accordo si basa su questa premessa e sul fatto che situazioni rigide, monolitiche con persone ai tavoli opposti non sia un modo per costruire vera fiducia. Da un punto di vista drammatico è perfetto, molto divertente. In molti rimangono sorpresi da quanto humor ci sia in ‘Oslo’ e pensano che lo abbia aggiunto io, mentre la verità è che ce n’era anche di più, che le situazioni reali sono state ancora più spassose e che ho dovuto limitarle perché nessuno ci avrebbe creduto. All’inizio ad esempio litigarono per tutto: per chi dovesse avere la stanza più grande, per le pause per andare in bagno, per che cibo mangiare”.

Con un debutto off Broadway nel giugno del 2016, lo spettacolo è passato a Broadway nel 2017 per poi andare a Londra e oggi, con il film, raggiungere una platea mondiale, proprio quando dialogare e negoziare è diventato molto difficile. “Nel 2016 la lettura del pubblico non era neanche su palestinesi e israeliani, ma su repubblicani e democratici. A Londra un anno e mezzo dopo tutti pensavano alla Brexit. In Corea del sud tutti parlavano dei rapporti con la Corea del nord. Questo per dire che ‘Olso’ è una specie di modello di ciò che servirebbe per portare le persone a riconoscersi nella stessa situazione, a vedersi come simili, a essere disposti a parlare e a venire a soluzioni, non importa quanto rischiose. Oggi la polarizzazione è così intensa che sembra impossibile, è difficile per un politico ascoltare l’avversario e arrivare a un compromesso. Quello che era il segno distintivo della politica americana ora sembra che sia quasi una vergogna, una debolezza, c’è l’orgoglio di non arrivare al compromesso, si preferisce denigrare gli avversari, ed è doloroso da vedere. Uno dei motivi per cui il pubblico risponde così bene a ‘Oslo’ è che abbiamo bisogno di esempi e rappresentazioni drammatiche degli sforzi delle persone per far funzionare le cose, non per farle esplodere. Come con il dramma storico di Shakespeare –  tra l’altro il più grande interprete shakespeariano degli ultimi cento anni è stato il vostro Giorgio Strehler – gli spettatori apprezzano il sacrificio per creare un mondo migliore. La parte più difficile è sempre il finale: è stato fatto così tanto e poi tutto crolla (Rabin viene ucciso nel 1995, ndr). E’ difficile da rappresentare e da affrontare. In questi giorni ci sentiamo tutti un po’ sopraffatti dai tanti conflitti. Desideriamo soluzioni, chiarezza, guida. Il teatro a volte è una risposta”.
 

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