Come cambia il lavoro dopo la pandemia /1

I set, la ripartenza, il bisogno di contenuti. Parla il produttore Pietro Valsecchi

La pandemia come tragedia e opportunità. Quello che dal male è venuto e può restare

Marianna Rizzini

"Spero che allo choc negativo segua un entusiasmo che porti a svecchiare", dice Valsecchi, che vede intanto un effetto positivo: "Fine della commediola italiana con piccole storie di corna. Di fronte a quello che è successo, è irrilevante"

Che cosa cambia, che cosa resta, che cosa ha trasformato (o no) il mondo del lavoro, dopo il passaggio non ancora concluso della pandemia? Dipende dal settore, ma anche dalla percezione: una  tragedia, sì, ma in alcuni casi una rivoluzione comportamentale e organizzativa che può essere stata anche un’opportunità. Nessuno vorrebbe aver vissuto quello che abbiamo vissuto, ma la realtà in qualche modo ci ha già investiti. E adesso? Il mondo del cinema e della televisione è stato il primo termometro della crisi da Covid: set fermi, nessun contatto, chiusura delle sale, e contemporanea espansione della domanda su piattaforme e piccolo schermo. “Servono contenuti, contenuti, contenuti”, dice Pietro Valsecchi, produttore che conosce bene entrambe le dimensioni. Andando a ritroso, e ferma restando la sensazione “che ci sia un prima e un dopo Covid, e che ormai da qui si debba ripartire”, Valsecchi pensa che qualcosa  possa essere salvato: “L’aver velocizzato la transizione tecnologica è un bene. L’uso sempre maggiore delle piattaforme streaming apre un mercato enorme e permette ai nostri film di andare nel mondo. Certo, con il rischio di penalizzare molto le sale cinemaografiche”.

Nel modo di lavorare, “l’uso della tecnologia ha dimostrato che non era necessario andare a Milano o a Roma tre volte a settimana, e che era possibile ottenere lo stesso risultato anche con riunioni a distanza, riducendo tempi e costi. Ma anche in questo caso c’è il rovescio della medaglia: si perde quel contatto informale e imprevisto che nasce da una chiacchierata non programmata”. Torna a quello che a suo avviso è il punto dolente, Valsecchi: “Se ci può essere un lato positivo del male è questo: l’aver fatto invecchiare tematiche e modi di raccontare tipici del cinema italiano, come la commediola familiare tutta incentrata su piccoli problemi di corna: di fronte a quello che è successo diventa irrilevante. C’è però purtroppo ancora una grande banalità nella costruzione delle storie e poca materia visionaria”.

A livello produttivo, dice Valsecchi, quella che sembra una conquista, il ricorso massivo al tax credit, potrebbe avere risvolti negativi: “Stiamo assistendo a una vera e propria inflazione di set, serie tv e film, una rincorsa che sta rendendo difficile trovare attori, registi, tecnici. Tutti fanno tutto, e in più i costi lievitano, anche solo per tenere sul set il cosiddetto Covid manager, quello che deve fare i tamponi. C’è pericolo che tutto questo prodotto non veda sbocchi nelle sale o che sparisca nei cataloghi delle piattaforme. E se in queste autostrade noi mettiamo delle utilitarie non andremo lontani, per questo insisto sul contenuto”.

Di fronte alla crisi epocale, c’è una speranza: “Spero che allo choc negativo segua un entusiasmo che porti a svecchiare un po’ il nostro mondo, fatto di piccole conventicole. Ecco, spero che questa forzata situazione di ripensamento porti a rivedere e allargare i perimetri del mondo del cinema attingendo a giovani risorse che possono proporre video o sceneggiature senza doversi magari trasferire a Roma, semplicemente facendo una call con un produttore. Per questo motivo ho pensato di creare un’accademia on line che verrà presentata al festival di Venezia, per dare ai ragazzi l’opportunità che da giovane io non ho avuto: sentire dalla viva voce dei protagonisti come si fa il cinema e la tv. Vorrei, da sessantenne, ridare qualcosa ai giovani, senza aiuto dello Stato”. E i fondi del Recovery? “Tutto cambia e nulla cambia. Se arrivano i soldi e non cambia la visione, i soldi non servono a nulla”. 

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  • Marianna Rizzini
  • Marianna Rizzini è nata e cresciuta a Roma, tra il liceo Visconti e l'Università La Sapienza, assorbendo forse i tic di entrambi gli ambienti, ma più del Visconti che della Sapienza. Per fortuna l'hanno spedita per tempo a Milano, anche se poi è tornata indietro. Lavora al Foglio dai primi anni del Millennio e scrive per lo più ritratti di personaggi politici o articoli su sinistre sinistrate, Cinque Stelle e populisti del web, ma può capitare la paginata che non ti aspetti (strani individui, perfetti sconosciuti, storie improbabili, robot, film, cartoni animati). E' nata in una famiglia pazza, ma con il senno di poi neanche tanto. Vive a Trastevere, è mamma di Tea, esce volentieri, non è un asso dei fornelli.