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“Il metodo Kominsky” per resistere alla dittatura del gender fluid

Mariarosa Mancuso

La questione dei pronomi sbarca anche in una serie tv “classica”

In una scena della serie “Portlandia” – sfuggita ai radar dei programmatori italiani  perché troppo americana e di nicchia, l’unico possibile altro motivo è che siano impervi alla comicità contemporanea – due donne cercano di cambiare il pannolino a un neonato senza guardarlo. Sono le proprietarie della libreria femminista, un cliente non può puntare il dito e dire “lo vede lassù quel libro, me lo prende per favore?”: il dito puntato è già orrenda violenza maschilista. Bisogna cambiare la nipotesca creatura senza guardare se ha il pisello oppure no: “Sceglierà lei da grande il sesso che preferisce”.  

 

“Portlandia” è finito nel 2018 (dopo 8 stagioni). “Il metodo Kominsky” con Michael Douglas vive e lotta insieme a noi, sulla questione dei generi, e delle complicanze che fanno aggiungere ai profili social il pronome gradito “al titolare dell’account”. La formula fin qui dovrebbe essere abbastanza neutra da non irritare nessuno. Si irriteranno tra un attimo. Il contesto, anzitutto: Morgan Freeman e un’allieva della scuola di recitazione diretta da Sandy Kominsky (così si chiama Douglas nel film) estraggono un proiettile da un cadavere squadernato per bene sul tavolo anatomico. “Come sta tua figlia?”, chiede l’assistente (asiatica) del dottore. “La mia progenie”, la corregge Morgan Freeman, che si dichiara nella versione inglese “grand zaza”, “grandpa” è sessista (i traduttori italiani suppliscono con “nonnix”). “Ma lei…”, azzarda sempre l’assistente. “Niente pronomi”, la zittisce Mr Freeman – ormai sono le particelle della discordia. Vanno avanti, tra “cisgender” e “fluid”, come modello di ruolo un pensierino lo merita anche Buzz Lightyear di “Toy Story”. Michael Douglas assiste alla scena, perplesso. “L’ho detto agli sceneggiatori, che a casa non avrebbero capito granché”.

Uno pensa con terrore a quel che potrà succedere, ora che le regole degli Oscar – e ancora peggio, il “cosa dirà la gente? E se poi ci scatenano contro una cagnara?” – proteggono le minoranze, e le minoranze delle minoranze. Lo sbarco in una serie “classica”, o se preferite vecchio stile, come “Il metodo Kominsky”, vuol dire che la questione dei pronomi non è così di nicchia come potrebbe sembrare

La terza stagione della serie parte più grintosa del solito, con la morte dell’agente di Sandy, nonché suo amico da mezzo secolo. Il Norman di Alan Arkin, in gara di bravura con Douglas, e convinto – lo dice in una delle prime puntate – che a una certa età i funerali sono l’unica vita sociale che ti tocca. Il suo funerale – da ebreo riformato – allinea discorsi uno più goffo dell’altro (la figlia di Douglas, Mindy, suggerisce dalle prime file: “Dovresti parlarne bene”). E nessuno ha ancora preso visione delle sue ultime volontà, che ben corrispondono alla regola di William Hazlitt, uno che conosceva bene il cuore umano: “Il testamento è l’ultima occasione che le persone hanno per fare dispetti, e quasi sempre ne approfittano”.

Ci sono i beneficati come Mindy Kominsky – il patrimonio del defunto ammontava a 150 milioni di dollari – che subito progetta un matrimonio esotico. Complice l’ex moglie di Douglas, tornata dall’Africa dove curava i bambini poveri (è Kathleen Turner, diventata una paciosa signora da sex symbol che era in “Brivido caldo” di Lawrence Kasdan). Diseredati, la figlia e il nipote di Norman. Senza crucci pronominali, ne hanno molti altri. Lui stava in Scientology, lei ha combattuto con l’alcolismo. Ora vorrebbe i soldi del genitore per un rehab alle Galapagos, da chiamarsi “The Suite Surrender”. Nella vita bisogna sapersi arrendere, meglio farlo comodi su una sdraio con vista sull’oceano.

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