Judas and the black messiah

Mariarosa Mancuso

La recensione del film di Shaka King, con LaKeith Stanfield, Jesse Plemons (acquisto o noleggio su Apple Tv, Amazon Prime Video, Youtube, Google Play, TIMVISION, Chili, Rakuten TV, PlayStation Store, Microsoft Film & TV, Sky Primafila e Infinity)

Ecco l’ultimo titolo del plotone black agli Oscar di quest’anno: sei candidature importanti, ma forse la statuetta più ambita andrà alla sino-americana Chloé Zhao con “Nomadland” (in Italia lo vedremo su Disney+ a fine mese). Interessante scontro tra vittime: Shaka King porta Fred Hampton, il capo delle Black Panther ucciso dall’Fbi a dicembre del 1969; la rivale porta i bianchi che oggi vivono nei camper vuoi perché non possono permettersi una casa, vuoi per spirito d’avventura (il risvolto “sono barboni ma liberi” è tutto della regista, mai sarebbe venuta in mente a noi una simile perversione). Fred Hampton fu brutalmente ammazzato a Chicago, un informatore della polizia aveva fornito la piantina dell’appartamento – lo si vede nei pezzi di repertorio, l’unica intervista mai rilasciata, molti anni dopo i fatti. Mr. Fbi J. Edgar Hoover temeva il carisma di Hampton, e soprattutto la volontà di riunire le bande di ragazzotti neri in un movimento rivoluzionario (terrore massimo, e prematuro, avendo la pupa otto mesi: “E se tua figlia ti portasse a casa un nero da sposare?”). Avvertenza: nell’edizione originale dicono una quantità di “negro” e “nigger” da far secche le anime belle convinte che la parola con la “n” debba sparire (noi siamo più della tendenza Lenny Bruce: dirla, ripeterla, ripeterla ancora finché non sarà più offensiva, al pari di molte altre). Ora che si può, con un semplice clic, dimenticate il doppiaggio, mettete i sottotitoli e godetevi la quasi incomprensibile parlata del sempre bravissimo Daniel Kaluuya, rivoluzionario tradito (per un distributore di benzina, chiavi in mano).

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