Cosa resterà del cinema anni 10

Mariarosa Mancuso

Da “Avatar” a “The Irishman” per vedere l’effetto che fa. E poi Zalone e i messicani, Disney e Netflix

Dieci anni fa di questi tempi eravamo comandati al cinema – il battage fu sfinente – per vedere “Avatar” di James Cameron. Checco Zalone aveva già dato una scossa di avvertimento al cinema italiano con “Cado dalle nubi”, attirando perlopiù commenti a scetticismo variabile tra “Zalone chi?” e “oddio come siamo caduti in basso”. Non era ancora “l’acne del successo”, con cui ha occupato il decennio trascorso e si è prenotato per gli anni Venti. Oggi “Tolo Tolo” si può vedere e godere senza la scusa di portarci i bambini o l’anziana madre (“a lei piace tanto”, abbiamo letto in un tweet: ancora pensano che serva la giustificazione, davanti alla comicità).

 

“Avatar” era in 3D, idea scellerata e nelle intenzioni “immersiva”. Avrebbe dovuto proiettarci dentro la storia, invece c’era sempre qualcosa a far da quinta, sottolineando il prodigio tecnico e spezzando l’incantesimo. Per fortuna gli anni Dieci ne hanno smorzato le velleità (neanche i Google Glass ci hanno cambiato la vita). Le tre dimensioni erano solo al cinema, con occhialini di qualità sempre più scadente e relativo mal di testa.

 

 

Per “The Irishman” – ultimo film del Signore della Mafia Martin Scorsese, pronto dopo molte ambasce: a che punto sono? a che festival andrà (Roma ha vinto la lotteria), sarà mai finito? – oggi possiamo scegliere tra sala cinematografica e Netflix. Stavamo per dire (maledetta forza dell’abitudine) tra grande e piccolo schermo: purtroppo esistono cinema d’essai con schermi più piccoli di certi computer, e riscaldamento precario. Dalla nostra piccola indagine, il film è piaciuto soprattutto a chi lo ha visto in casa, comodo sul divano, e con il tasto “pausa”.

 

 

I due film segna-epoca hanno in comune lunghe lavorazioni, con la tecnologia messa di traverso. Prenderne atto inquadra il decennio: ora tutti i registi sono sedotti dagli effetti speciali. Il regista di “Titanic” pensava al suo pianeta blu dal 1994, ma non c’erano i mezzi per portare lo spettatore tra i Na’vi senza che sembrassero puffi giganti. Il regista di “Taxi Driver” aveva annunciato che dopo “Silence” (il film sui gesuiti missionari in Giappone, un mezzo insuccesso datato 2016) voleva raccontare la storia del killer Frank Sheeran, presunto assassino nel sindacalista Jimmy Hoffa – se valgono le confessioni in punto di morte, rilasciate a giornalisti in cerca di scoop. Problema: ringiovanire gli attori: l’ascesa e caduta del killer irlandese – narrata da Robert De Niro con i tubicini nel naso e un piede con pantofola di feltro nella tomba – occupa vari decenni.

 


I due film segna-epoca hanno in comune lunghe lavorazioni, con la tecnologia di traverso. Ora tutti i registi sedotti dagli effetti speciali. “Avatar” preannunciava una serie di sciagure a venire. Le piante che guariscono. La mancanza totale di senso dell’umorismo


 

Il nostro grado di entusiasmo per “Avatar” era vicino allo zero, assommando il film molte delle cose che non sopportiamo al cinema e fuori. Popoli primitivi che la sanno lunga, anime (o chi per loro) che escono dal corpo di un soldato paralizzato per farsi un avatar blu elettrico volteggiante sul pianeta Pandora, pieno di neon. L’albero della vita, in versione allucinata, quasi dieci anni prima di “The Tree of Life” diretto da Terrence Malick. Vale a dire il regista che negli anni dieci da Rarefatto Maestro è diventato generosissimo con i suoi fan, sprecando i crediti accumulati con “La rabbia giovane” e “La sottile linea rossa” (confessiamo una lieta Schadenfreude, a vedere gli adepti che mandano giù certi indigeribili svolazzi lirici, con arrampicate critiche di sesto grado per salvarli).

 

Fossimo stati più attenti – a ripensarci con il senno di poi, tutto è chiarissimo – “Avatar” preannunciava una serie di sciagure a venire. Le piante che guariscono. La mancanza totale di senso dell’umorismo (se non involontario: lo spettatore ride quando il regista esige solennità celentanesca). I cacciatori che chiedono scusa agli animali uccisi. La vita virtuale. La politica più virtuale ancora, praticata come se fosse sempre possibile tornare sempre al punto di partenza, riposizionare le pedine, lanciare il dado e ricominciare una nuova partita. Nessuno ci toglierà dalla testa che un certo numero di persone che hanno votato Brexit o Movimento 5 stelle volevano vedere “l’effetto che fa”. Forse anche Matteo Salvini voleva vedere l’effetto che fa, richiedendo dal Papeete “pieni poteri”. Tanto poi, game over, si comincia da capo: Volevi spegnere tu l’altoforno? Col cavolo, adesso lo spengo io. Facciamo a chi fa perdere più soldi all’Alitalia? Scansati, son più bravo io. Quello era il tuo alleato? Ma va’, adesso sta in squadra con me.

 

Staremo più attenti ai prossimi “Avatar”, già minacciati da James Cameron. Il film numero due arriverà a dicembre del 2021, poi uno l’anno fino al 2027. Saranno paracadutati in un panorama più strano di Pandora, forse l’ultimo ce lo siringheranno direttamente nel cervello, o avremo gli elettrodi in testa per ricevere le debite emozioni senza dover passare attraverso una storia (era una vecchia idea di Alfred Hitchcock, un dinosauro estinto negli anni Ottanta del secolo scorso). E capirla, la storia: con i giudizi deliranti che si leggono in giro, la pratica è desueta.

 

Sunto per chi fosse andato in letargo una decina di anni fa, risvegliandosi l’altro ieri. Il cinema si vedeva fuori casa, nelle sale buie, in mezzo a sconosciuti (ebbene sì, pare che la promiscua prospettiva cominci a inquietare i post-millennial, sarà sano? sicuramente è biologico, tranquilli). Lì si celebravano i riti collettivi, non solo “Avatar” ma i vari “Star Wars”, ancora saldamente in mano alla Lucas film. Oggi, da qualsiasi parte giriamo lo sguardo, tutto appartiene a Disney. La Pixar comprata nel 2006 (i primi frutti si sono visti con il ritardo che l’animazione richiede, e il disastro si è compiuto con l’allontanamento di John Lasseter per “abbracci inappropriati”, qualsiasi cosa voglia dire). Appunto la Lucas film. La Marvel Entertainment nata per sfruttare il patrimonio di personaggi Marvel (“Avengers: Endgame” ha battuto nel 2019 il record d’incassi di “Avatar”, però non fidatevi, non è finito nulla). Ultima la 21st Century Fox: fa un certo effetto vedere il castello Disney in testa a un film come “Jojo Rabbit” di Taika Waititi, un attimo dopo compare sullo schermo un amico immaginario di nome Hitler, Disney anche l’ultimo regalo del 2019, Baby Yoda: instant classic, nel senso di certi libri, e deliziosa mascotte per gli incombenti anni Venti. Targati Disney saranno anche Megan e Harry, stando alle ultime indiscrezioni: alla ditta serviva una principessa vera, l’hanno arruolata come doppiatrice.

 

“That Will Never Work”. Non funzionerà mai: è il titolo scelto da Marc Randolph, fondatore con Reed Hastings e primo ceo della ditta, per raccontare la nascita di Netflix. La prima pensata – nel 1997, il giovanotto voleva “vendere cose su internet” – riguardava la spedizione di shampoo, cappelli da baseball, cibo per cani, tutto a misura di cliente. Dettagli forse inutili, ma non per questo meno gustosi: Sigmund Freud (in famiglia “Uncle Siggy”) era un prozio del padre, e per parte di madre Marc Randolph era imparentato con Edward Bernays, celebrato inventore delle pubbliche relazioni americane (convinse i registi di Hollywood che qualsiasi attore era più fascinoso con una sigaretta in mano, poi rese popolari le banane).

 

Ha funzionato molto al di là delle intenzioni, spezzando a metà il decennio. Lo streaming era partito, invece delle buste rosse con i Dvd a noleggio da restituire in qualsiasi cassetta postale (beati i paesi dove i servizi funzionano). La produzione di contenuti originali no: Jeff Bezos di Amazon mica produceva libri, li vendeva soltanto. Ora non è più tanto vero, esistono gli Amazon Original proditoriamente suggeriti dall’algoritmo (che in altre occasioni, per andare sul sicuro, suggerisce i rari volumi cartacei e non italiani già comprati).

 

Nel 2015, Netflix produce il suo primo film, il bellissimo “Beasts of No Nation” di Cary Fukunaga. E va in concorso alla Mostra di Venezia diretta da Alberto Barbera: alcuni direttori son più lungimiranti di altri, o meno ostacolati dalle associazioni dei distributori, oppure dai dibattiti pseudo-critici che giudicano un manufatto culturale dai suoi modi di circolazione. Come se i primi dischi non fossero stati respinti con orrore dagli appassionati di musica: perbacco, i quartetti e le orchestre vanno ascoltati dal vivo, cosa sono queste diavolerie moderne.

 

 

Nel 2019 Netflix ha prodotto una cinquantina di film, non tutti parlati in inglese perché la società è globalizzata ma l’aria di casa è sempre aria di casa. Oltre a “The Irishman”, ha candidato a numerosi Oscar “Storia di un matrimonio”. Amazon ogni anno va al Sundance Film Festival per comprare qualche titolo indipendente da mettere in streaming su Amazon Prime (oltre alle serie, naturalmente ma qui stiamo sul cinema). Poi ci sono gli Amazon Originals, produzioni originali avviate con “Crisis in Six Scenes” di Woody Allen. Era il 2016, fileranno d’amore e d’accordo al punto da firmare un contratto per 68 milioni di dollari, salvo brusca marcia indietro per via del #MeToo che ha trascinato nella polvere – pardon, dietro un girello – anche il potentissimo e un tempo riveritissimo Harvey Weinstein (leggendarie erano le sue campagne per gli Oscar).

 

“Disruptors of the decade”: è il titolo di una serie di articoli su Deadline, lo streaming ha un posto d’onore, Fissa però la data al febbraio 2013: quando viene messa a disposizione dei golosi – in procinto di scoprire il vero “binge watching”, non quello posticcio che registra gli episodi settimanali per guardarli il sabato pomeriggio – la serie “House of Cards”. Primo episodio diretto da David Fincher, protagonista Kevin Spacey che veniva da Hollywood e dal teatro londinese. Non era solo cinema (più o meno d’autore) contro serie (allora quasi sempre d’autore). Non era solo salotto di casa contro sala buia. Non era solo nostalgia contro voglia di novità. I milioni di dollari investiti da Netflix nella produzione hanno cambiato gli equilibri, dato occasioni a registi che sarebbero rimasti nella loro nicchia. Per dire: Noah Baumbach era già bravo prima di “Storia di un matrimonio”, ma nessuno lo avrebbe paragonato a Martin Scorsese. Né avremmo immaginato Adam Driver con un Golden Globe come migliore attore drammatico, mentre Robert De Niro di “The Irishman” non era neppure candidato (non è candidato neppure agli Oscar). Hanno cambiato le quotazioni dei film indipendenti. Hanno finanziato film che senza Netflix non avremmo mai visto.

 


“Black Panther”, un film che silenziosamente ha cambiato i connotati al decennio. “Mad Max: Fury Road” da non perdere. Oggi, da qualsiasi parte giriamo lo sguardo, tutto appartiene a Disney. “Non funzionerà mai” il titolo scelto per raccontare la nascita di Netflix


 

Non vale tanto per “The Irishman”. Martin Scorsese, senza la fissa di ringiovanire al computer gli attori di “Quei bravi ragazzi”, ce l’avrebbe fatta comunque. Non c’erano altre facce, per fare i mafiosi? Robert De Niro era giovane, quando ebbe la sua occasione. Possibile che anche il nemico numero uno dei film con i supereroi abbia bisogno di un aiutino computerizzato? Un po’ di immaginazione ancora l’abbiamo. Oppure come nel “Re Leone” in versione live action dobbiamo distinguere ogni pelo della criniera per capire che di leone trattasi?

 

Vale per un film come “Roma” di Alfonso Cuarón, parlato in messicano alternato al mixteco, in bianco e nero, con un’attrice che faceva la cameriera e tornerà probabilmente a fare la cameriera (non abbiamo simpatia per gli attori presi dalla strada, era per certificare lo scarso appeal commerciale del progetto). Non lo voleva nessuno, e dire che i registi venuti dal Messico sono stati un’altra grande novità di questi anni Dieci. Netflix ha rischiato – nel senso che ha fatto benissimo i suoi calcoli, mica fa beneficenza, ma ci sono produttori più audaci di altri. Il film è stato respinto dal festival di Cannes e ha vinto la Mostra di Venezia, che quest’anno ha premiato con il Leone d’oro “Joker”, campione dei film collettivamente sdegnati da Martin Scorsese perché tutti uguali (e i film di mafia invece? tra un vecchio Scorsese e un nuovissimo Scorsese non vediamo un abisso).

 

Nascosto tra i film di supereroi è arrivato uno di quei titoli che silenziosamente (nel senso che non fanno proclami, gli incassi sono comunque stati notevoli) cambiano i connotati al decennio. Parliamo di “Black Panther”, diretto nel 2018 da Ryan Coogler, regista fino a qualche anno prima noto solo ai frequentatori di festival. Aveva girato “Fruitvale Station”, indipendentissimo film su un giovanotto ammazzato dalla polizia alla vigilia di Natale – nonostante la trama a rischio, era pure una storia vera, se l’era cavata benissimo. Nella messa in scena del regno di Wakanda, inventato da Stan Lee e Jack Kirby, ha messo tutta la cultura africana, legandola alla vita dei ragazzini neri americani e alla meraviglia estetica chiamata afro-futurismo. Meglio di qualunque lagna #oscarsowhite”. Va preso atto – ditelo a Scorsese, con il garbo necessario – che i film di supereroi son come l’opera lirica: hanno le loro regole, ma i contenuti possono essere geniali, mediocri, cretini (l’opera lirica saprà scusarci, ma resta uno dei pochi esempi di forma chiusa e obbligata che dà spettacolo).

 

Altro film che forse non avete perso – ma va visto assolutamente, invece di perdersi dietro a “Wonder Woman” come esempio di empowering femminile – è “Mad Max: Fury Road” di George Miller, anno 2015. Charlize Theron rapata a zero e senza un braccio – di nome fa “Furiosa” – affronta i più tremendi pericoli e salva il mondo. Mette un po’ tristezza rivederla in “Bombshell - La voce dello scandalo” (esce il 26 marzo). Un compitino sulle molestie nel giornalismo televisivo americano.

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