La nuova Capalbio

Andrea Minuz

Fuori l’autore, dentro il cinema di genere. A Pesaro il festival estivo più radical chic d’Italia riabilita Sergio Leone e i cinepanettoni

“Nuovo cinema” fu un’etichetta elaborata a ridosso del Sessantotto per indicare tutto un cinema “altro” e “oltre”, come si diceva allora, cioè non conformista, non industriale, non narrativo, non omologato allo “spettacolo”, contro Hollywood, contro Cinecittà, contro il pubblico; il “New American Cinema”, il “Free Cinema”, tutte le Nouvelle Vague, il “terzo cinema”; un cinema marginale, antagonista, assolutamente minoritario, aperto e disponibile a tutti gli “ismi” (coi suoi film strutturalisti, femministi, situazionisti, film che non erano più film, casomai “gesti”, “operazioni”, “provocazioni”). Ora che si fatica molto a immaginare le parole “nuovo” e “cinema” messe insieme nella stessa frase, ora che il “contro-cinema” offre al più l’eco lontana e analogica di movimenti e preoccupazioni culturali dalla fantasiosità esotica, ora che l’“underground” non dischiude più visioni extrasensoriali e l’“happening” è tutto un “flashmob”, ecco che si rimandano indietro le lancette; come diceva Verdi, “si torna all’antico, sarà un progresso”. Non sarà quindi un caso se, superato il mezzo secolo di vita, la Mostra Internazionale del Nuovo Cinema (Pesaro, 15-22 giugno 2019), presidio storico della “sperimentazione al potere”, si interroga sulle magnifiche sorti e progressive del cinema italiano “di genere”.

 

I generi diventano adesso la risorsa decisiva per abbandonare l’eterna lotta tra l’alto e il basso, confluendo nel “medio”

Un tempo nemici acerrimi di ogni forma che si voleva espressiva e urgente, i generi diventano ora risorsa decisiva per abbandonare l’eterna lotta tra l’alto e il basso confluendo nel “medio” d’una “Gomorra”, una “Suburra”, un “Jeeg Robot”. Fuori l’autore, dentro il genere. Capita così, in questo pastiche politico-estetico-generazionale, di vedere sulla stessa piazza o sulla spiaggia in riva al mare o nel silenzio della saletta buia intitolata a Pier Paolo Pasolini buonanima, i film sperimentali in super8 e i poliziotteschi con Tomas Milian, Veltroni e Lino Banfi, Enrico Ghezzi, “Fuori Orario” e i western di Sergio Leone, i corti russi, l’animazione di nicchia, i videoartisti, i “fuori-norma”, i film-saggio, come in una specie di Leopolda cinephile che amalgama le anime della sinistra, quella off-off dell’agitazione e della sperimentazione e quella dei Vhs dell’Unità.

 

Dialogavano così in piazza, l’altra sera, Giovanni Floris e Walter Veltroni, entrambi confessando la loro inesauribile passione per la commedia all’italiana e i cinepanettoni; “io dal primo Vacanze di Natale in poi li ho visti tutti”, diceva Floris, “Natale in Egitto l’ho visto due volte al cinema nella stessa giornata, allo spettacolo delle 15 e 30 e poi la sera, quando Boldi e De Sica si sono separati sono stato male”; e proseguiva poi con le citazioni da “Febbre da cavallo” e l’amore per gli horror di serie B, C e Z, in piena sintonia, come gli faceva notare giustamente Walter, col suo lavoro di conduttore di talk-show (“in trasmissione mi trovo spesso in situazioni complesse che in teoria indignano ma da cui si esce solo con una battuta o una gag”, come nei cinepanettoni migliori). Poi dopo che Floris si congedava dal pubblico col suo personale pantheon di “scene madri”, su cui si staglia come una stella cometa, la gag della doccia di “Vacanze di Natale ‘95” in cui Boldi trascina via De Sica prendendolo per l’uccello, ecco che subito partiva un film cileno, fitto di silenzi, sguardi, penombre, risolutamente contrapposto, spiegava la regista al pubblico, “all’egemonia del cinema industriale”. E’ la meraviglia di questo Festival che fa di Pesaro una nuova Capalbio. Una “piccola Atene” dell’Adriatico che ha imparato dagli errori e per non consegnarsi alla Lega si vota alla contaminazione radicale, all’apertura verso tutte le suggestioni, a una nuova all’alleanza, quantomeno cinematografica, tra popolo e élite. E’ in fondo questo il miracolo dei film di genere, anche se da noi già la lingua non aiuta (con il “cinema di genere” che indica western e noir e thriller, ma anche film in quota rosa e “gender fluid”). Non è certo un caso che sia ancora viva, anzi goda di ottima salute l’opposizione “genere” e “autore”, con il primo spazio occupato quasi interamente dalla commedia e il secondo cristallizzato nelle forme dell’impegno (lanciando a pochi mesi di distanza uno dall’altro, “Natale a cinque stelle” e “Sulla mia pelle”, il film sul caso Cucchi, l’algoritmo di Netflix dimostra di conoscerci benissimo). I generi promettono significati e piaceri al pubblico, compensano i considerevoli rischi economici della produzione e della creatività a braccio, svincolata da ogni patto con lo spettatore. Ed è subito chiaro che in un cinema senza star ma ricolmo di “antidivi”, centrato sull’autore più che sulle storie, col rischio d’impresa garantito dalle televisioni e dal finanziamento pubblico, in cui si fatica a chiamare i film “prodotti” persino quando si scrivono le leggi, alla fine non si capisce neanche bene cosa siano o dovrebbero essere i film di genere.

 

Questa “piccola Atene” dell’Adriatico ha imparato dagli errori e per non consegnarsi alla Lega si vota alla contaminazione

Per districarsi c’è il volume che accompagna la retrospettiva pesarese, “Ieri, oggi e domani: il cinema di genere in Italia”, curato dal direttore della Mostra, Pedro Armocida e dal critico, Boris Sollazzo (Marsilio Editore). Il momento storico è propizio. Sono ormai parecchi i titoli italiani che si richiamano ai generi, anche se i generi, va da sé, ci sono sempre stati. Casomai, è la critica che è cambiata. Persino i film d’autore si possono ormai leggere come film di genere (come scrive Marco Giusti, “due dei film più interessanti e più autoriali di questi ultimi tempi, cioè ‘Dogman’ di Matteo Garrone e ‘Suspiria’ di Luca Guadagnino, sono in realtà una sorta di western moderno il primo e una specie di saggio sul ‘Suspiria’ di Dario Argento il secondo”). “Il testimone”, il film di Bellocchio su Tommaso Buscetta con Favino, per una buona mezz’ora è un action movie con un ritmo che da noi si vede poco, con la regia che si mette al servizio della storia e dello spettatore, poi si intorbidisce, si fa vibrante denuncia e ci ricorda come mai la mafia l’abbiamo inventata noi ma al cinema ce l’hanno raccontata gli americani, con una spirale epica di violenza e vendette come qui si è cominciato a fare solo con “Gomorra”. In Italia no. Fino all’altro ieri, se c’era l’“action”, oppure se il tasso di violenza superava l’impegno, non poteva esserci l’autore. I generi, si sa, sono stati la nostra fortuna e il tiro al bersaglio preferito dalla critica prevalentemente di sinistra. Il nostro cinema popolare era un surrogato di quello americano (lo scopiazzavamo da cima a fondo, con il tipico estro italiano) ma si vendeva meglio perché al prezzo di un film americano da noi se ne facevano sette. Eravamo i “cinesi” dell’industria cinematografica. Poi è venuto giù tutto. Sono quindi assai utili le appendici del libro con la bella carrellata di stroncature d’antan dei nostri film di genere che facevano il giro del mondo e che oggi proviamo faticosamente a rimettere in piedi.

 

Veltroni e Floris che in piazza celebrano “Febbre da cavallo” e “Vacanze sul Nilo” coi film sperimentali e “sovraesposti”

I film di Sergio Leone sprezzantemente etichettati “western ciociari”, film “diseducativi”, di “esasperante lentezza” e che proprio nella violenza eccessiva, ridondante e gratuita mostravano tutti i segni della “deriva capitalistica e consumistica” della società italiana; oppure i film poliziotteschi con inseguimenti, rapine, sparatorie, antesignani delle serialità “crime” ma letti all’epoca come reazionari e al servizio della repressione di stato, film cioè che esaltavano la ribellione del cittadino e “la prestanza dell’individuo borghese, disturbato nel libero godimento dei propri beni” (con “propri” messo, va da sé, tra virgolette), fino a ipotizzare che non fossero solo il frutto di qualche “fantasioso produttore” ma diretta emanazione di “centri di potere, pubblici e privati, interessati a usare il cinema come strumento di controllo delle opinioni e di stagnazione dei valori sociali” (idea che sarebbe da riprendere: un ciclo di “vitalizi a mano armata” e “la casta ha le mani legate” se non si vuole lasciare campo libero a Salvini); o, ancora, il cinema di Dario Argento in cui esplodono “i connotati propri dell’ideologia fascista” qualsiasi cosa voglia dire, o infine il povero Elio Petri, un regista “communista cosìììì”, come direbbe Mario Brega, ma che fu bollato allora come traditore, reazionario e “borghese” per aver vinto un Oscar con un giallo, seppur un giallo capovolto (“Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto”), beccandosi pure il soprannome, “Lotto continuo”, dopo che con quei soldi si era comprato una modesta villetta a Fregene. Cose oggi incomprensibili. Difficili da spiegare a chi è nato negli anni Ottanta, figuriamoci dopo. Cose che, dai e dai, hanno aperto una voragine tra il cinema italiano e il pubblico, scaraventandoci dentro quelli che Marco Giusti chiama “gli anni grigi”, un periodo che inizia alla fine dei Settanta e si trascina fino all’altro ieri, ammesso che se ne sia usciti. Certo, gran parte del furore ideologico che ha fatto a pezzi il meglio del cinema italiano è ormai alle spalle, e Veltroni e Floris che in piazza celebrano “Febbre da cavallo” e “Vacanze sul Nilo” ormai stanno insieme coi film sperimentali e “sovraesposti”. Però l’esaltazione dell’artista a dispetto dei generi, unita a un’idea narcisistica di “autorialità” e a un’altra pesantissima di “cultura”, è talmente radicata nelle profondità dell’inconscio italiano che sarebbe meglio essere cauti. “Da noi”, dice Gianni Canova, “la pervasiva e pervicace diffidenza nei confronti dei generi affonda le sue radici da un lato nel perdurante idealismo della cultura italiana, dall’altro in un’immagine dell’artista come genio sregolato e disobbediente, insofferente ai canoni e alle regole, istintivamente molto più portato a bruciare incensi sull’altare dell’autorialità più capricciosa che a sottoporre sé stesso a una disciplina, com’è quella che il genere, necessariamente, implica. Non è un caso, per esempio, che la stessa letteratura italiana sia insegnata nelle scuole di ogni ordine e grado, dalle medie inferiori al liceo classico, con un approccio autoriale invece che con un approccio di genere: a scuola si fa Dante, poi Petrarca, poi Boccaccio, invece di provare a fare i conti con il sistema di generi con cui (e dentro cui…) ognuno di questi grandissimi si è trovato a operare”. E invece di fare i conti coi “generi”, a scuola si infila anche Tomaso Montanari, appena promosso a “tema della maturità”.

 

Ma allora da dove viene fuori questa voglia di generi? Storicamente, c’entrano molto la rivoluzione di Tarantino e le celebrazioni di “Pulp Fiction” che da noi iniziarono subito (“Siamo figli di Pasolini, fratelli di Tarantino”, titolava “La Stampa” spiegando il fenomeno); masse di cinefili in tripudio, entusiasti di ritrovare una mossa di kung-fu, un vecchio horror italiano, un B-movie coreano, orde di studenti del Dams che scoprivano “Roma a mano armata” o “Il figlio di Django”, e altra roba che noi avevamo ampiamente schifato o di cui ci era mancata la cognizione del piacere, e persino gli intellettuali che scomodavano i simulacri di Baudrillard, Pollock, Lichtenstein, la “fine della Storia”, “Learning from Las Vegas”, perché Edwige Fenech e Sergio Corbucci non bastavano più. C’entra poi il tempismo perfetto dell’operazione “Romanzo criminale” (il libro è del 2002, il film del 2005, la serie del 2008); c’entra ovviamente il lavoro di Marco Giusti con “Stracult”. E’ in quegli anni che si gettano le basi per un timido ritorno ai generi che significherà soprattutto un’abbuffata di noir metropolitano nelle serie tv.

 

Certe critiche hanno aperto una voragine tra il cinema italiano e il pubblico, scaraventandoci dentro i cosiddetti “anni grigi”

Poi è arrivata un’altra generazione. Come dice Gabriele Mainetti, regista di “Jeeg Robot” che qui a Pesaro proiettano sulla spiaggia: “Siamo cresciuti davanti a una televisione che ci ha fatto da balia, per noi è istintivo fare cinema di genere. La cosa innaturale, semmai, è l’autore, tipo voglio fare Rossellini; è un’ottusità figlia di uno stupido percorso che si pensa come elitario. Vuoi essere Rossellini? Mi dispiace non sei Rossellini! Rossellini aveva delle crisi identitarie legate a problematiche che un uomo della mia generazione non ha mai conosciuto. L’amore per il sogno comunista e la spinta religiosa non ci riguardano minimamente”. Siamo figli di Pasolini, fratelli di Tarantino e nipoti di Berlusconi.

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