In latino sul set de "Il primo re"

Il film protopolitico. Chi è Matteo Rovere, che ha girato la pellicola in cui si narrano le gesta di Romolo e Remo ma non vuole essere solo regista e a 37 anni non si sente un enfant prodige

Marianna Rizzini

E poi improvvisamente, nella stralunata Italia sovranista, arriva il film che non ti aspetti: non è politico in senso stretto, ma è protopolitico al punto da essere recitato in protolatino, anche se la politica non passa in questo caso per le parole. Non è di genere in senso stretto, come direbbero i critici cinematografici (che non siamo), ma dal cinema di genere parte per poi andare altrove – un altrove esistenziale: libero arbitrio, scelta, amore, morte, dolore, forza, rovesciamento di ruoli, rinascita, lotta, speranza, abisso (letteralmente: l’acqua, anche se di un fiume, è “personaggio” almeno quanto i due protagonisti de “Il primo re” di Matteo Rovere, il film in questione). Film in cui si parla, dall’inizio alla fine, il suddetto protolatino, ricostruito con innesti dall’indoeuropeo grazie alla consulenza di semiologi, linguisti, antropologi e archeologi e senza alcuna licenza comica alla “Bertoldo, Bertoldino e Cacasenno”; film in cui si narrano le gesta di Romolo e Remo, mito fondativo di Roma, ma non con la fissità solenne di William Kentridge, autore del fregio monumentale sul Tevere attorno al quale fiorì la cosiddetta “polemiche delle bancarelle” (quelle davanti al fregio medesimo). Ne “Il primo re”, infatti, Romolo, Remo e la stessa Roma sono sì il terreno del primo livello di lettura, ma non esauriscono la lettura. Non a caso per questo film sono stati tirati fuori paragoni di ogni tipo: da “Apocalypto” di Mel Gibson alla trilogia del “Signore degli anelli”, da “Revenant” di Alejandro González Iñárritu a “Valhalla Rising” di Nicolas Winding Refn, nel caso degli estimatori, a “Game of Thrones”, nel caso dei (rari) detrattori, i quali comunque sono quasi sempre concordi nel dire che “questo film si doveva fare”. E non perché Roma c’entri, in sé, nel senso comunemente inteso nell’Italia sovranista dove soltanto a nominare la Capitale si solleva subito tutta una simbologia (negativa): non è più intesa come “ladrona”, Roma, ché anche Matteo Salvini combatte sottotraccia con Virginia Raggi per conquistarla in prospettiva, ma non riesce a emergere dal fango metaforico in cui gli osservatori la trovano immersa. Invece nel film il fango non è metaforico: c’è, è lì, è “personaggio” come l’acqua e come i due fratelli del mito (interpretati da Alessandro Borghi e Alessio Lapice con impressionante capacità mimetica persino nella postura da ex pastori diventati guerrieri obtorto collo), come il Tevere e come la paura che l’uomo dell’VIII secolo avanti Cristo doveva provare in un bosco che oggi è a un’ora di macchina da Roma (il film è stato girato nel Lazio), ma allora era mondo di insicurezza fisica e psicologica, luogo reale e immaginario popolato da spiriti maligni e pericoli, ostile e respingente.

 

Il suo film su Romolo e Remo, girato in protolatino, è costato 9 milioni di euro e non vuole essere il tipico “film d’autore” italiano

Il film precedente, “Veloce come il vento”, è talmente diverso da questo che sembra girato da un altro (ed è tutto voluto)

E però il vero caso quasi quasi non è il film, per quanto il film lo sia per forza, visto che è costato 9 milioni di euro (cifra di solito non comune per il cinema italiano), con produzione di Groenlandia group e Rai Cinema e coproduzione con il Belgio, e visto che è stato pensato e lavorato in mesi e mesi di studio preventivo matto e disperatissimo (ogni volta che qualcuno chiede a Rovere il perché e il percome della lunga lavorazione, Rovere dice che uno si deve assumere la responsabilità davanti al pubblico che paga il biglietto, e che il cinema deve intrattenere ma è una cosa seria nonché un lavoro di squadra da “maniscalchi che fanno cose”, e poi spiega la meticolosa fase in cui, attorno a un tavolo, per mesi, gli autori del film, cioè lui, Filippo Gravino e Francesca Manieri, e i produttori e i capireparto delle maestranze, aiutati in alcuni casi da consulenti stranieri, si domandavano come superare la difficoltà di questa e quella scena, dalla sequenza dell’inondazione del Tevere che apre il film in giù). Ed è chiaro che l’ambizione, prima di tutto del regista (che non la nasconde, anzi, pur definendosi “un artigiano”), è pari al tempo speso sul set (dodici settimane) e in post-produzione (14 mesi), girando con luce naturale (il direttore della fotografia è Daniele Ciprì) e nel modo più realistico possibile: a un certo punto lo spettatore, disabituato o per nulla avvezzo ai combattimenti, nota cose che mai aveva notato in film con combattimenti: e cioè che i nemici, oltre che feriti, venivano “derubati” di armi, calzari e pelli, e che i combattenti diventavano come i nemici appena sconfitti, e che di ferite si poteva anche morire, e la fame era fame, tanto da farti mangiare anche un cuore di cervo crudo (lo si vede sullo schermo, senza distorsioni buoniste da favola nera edulcorata alla Biancaneve). Il vero caso qui è dunque prima di tutto il regista, di cui – anche per via della scelta di vita poco “socialite” – è difficile ricordare il volto: non va molto in tv, non rilascia molte interviste, fa sempre film diversi l’uno dall’altro, al punto che chi ha apprezzato quello precedente, “Veloce come il vento”, storia di una diciassettenne pilota di macchine e di suo fratello ex tossicodipendente, pilota nell’animo anche più di lei, trasecola quando apprende che “Il primo re” è stato girato dalla stessa mano. Ma non è un male, questo, anzi, per Rovere, romano trentasettenne senza scuole di cinema (le detesta e lo dice) ma con molto set alle spalle. Un giovane che non ha mai fatto una vita da “ggiovane”, dicono gli amici; un giovane secondo gli altri ma non secondo lui, e infatti quando gli dicono “come sei giovane” lui sgrana gli occhi tondi su volto tondo: “Ma ho trentasette anni!”, come se non abitasse nell’Italia-paese-per vecchi. E sentendosi giovane-non giovane si sente anche autore che non vuole essere chiamato autore. Anzi: Rovere, e non da oggi, fa anche, senza complessi e dietro le quinte, il produttore (in alcuni casi soprattutto il produttore), da solo o con i soci della Groelandia group, cioè Andrea Paris (Ascent film) e Sydney Sibilia, il regista del film rivelazione di qualche anno fa, quello “Smetto quando voglio” per cui Rovere ha vinto un Nasgtro d’Argento proprio per la produzione (anche in quel caso il commento universale nel settore fu: “Il più giovane produttore di sempre!”). “Non gliene importa nulla di essere percepito come una cosa sola e come regista inquadrabile per un’unica cifra stilistico-poetica” dice il socio Andrea Paris, che lo conobbe quindici anni fa a casa di un’amica e che, nel ripercorrere la sua storia, ne sottolinea l’impostazione all’americana (ma anche alla francese “nel senso di Luc Besson”).

 

Fuori dal paragone estero, Rovere, ex studente del liceo Mamiani, frequentatore (oggi) del cineclub Kino, “cinematograficamente figlio di nessuno come Paris” (così dice Paris), figlio di un’insegnante e di un dirigente d’azienda, fin da giovanissimo (diciannove anni) ha percorso con cocciutaggine e senza preclusioni la strada che l’ha portato fino a qui: ha girato i primi due lungometraggi su “commissione”, come dice lui stesso nelle interviste, “molto grato” per la possibilità offerta, e sul set è stato qualsiasi cosa, dal runner all’assistente alla regia, a partire dalla prima occasione lavorativa, arrivatagli attraverso un’amica: andare appunto a fare esperienza sul set di un lungometraggio allora prodotto dal gruppo Cecchi Gori. Intanto però Rovere, non ancora ventenne, aveva vinto al Linea D’Ombra Salerno Film Festival il Premio Kodak con il suo primo cortometraggio autoprodotto (“Lexotan”). A ventiquattro anni, dopo aver incontrato Paris, e dopo essere volato con lui in Camargue per un documentario sul più grande raduno europeo di zingari, dirigeva (e con quello vinceva il primo Nastro d’Argento) il corto “Homo Homini lupus”, racconto da un lato realistico dall’altro onirico delle ultime ore di un partigiano (interpretato da Filippo Timi) – cortometraggio che, guardato oggi, mostra in nuce tutti gli elementi de “Il primo re”, dal tema del libero arbitrio fino a quello del bosco come contenitore di un conflitto prima di tutto psicologico. A ventisei anni Rovere dirigeva il primo lungometraggio “Un gioco da ragazze”, tratto dal romanzo di Andrea Cotti, storia che anticipa il ribaltamento del genere “teen” a cui si arriverà in tempi più recenti sullo schermo e sul piccolo schermo: nel film le ragazze sono cattive ragazze senza consolazione e senza redenzione, i buoni non vincono, e il regista, narrano gli osservatori di quel primo lavoro, sbalordì i borghesi, per così dire, proponendo la parte della più cattiva tra le cattive all’angelica Katy Louise Saunders, già protagonista di “Tre metri sopra il cielo”, tratto dal romanzo di Federico Moccia, ricevendone in cambio un netto rifiuto. Neanche trentenne Rovere dirigeva invece “Gli sfiorati”, dall’omonimo romanzo di Sandro Veronesi, e prima di arrivare al primo lungometraggio non su commissione, “Veloce come il vento”, giungeva alla conclusione che se a vent’anni ti prepari, a trenta non sei un enfant prodige, ma uno che ha lavorato su di sé e ha “un’energia incredibile”, come ha detto lui stesso in un’intervista a Francesco Alò su Badtaste.it – e chi lo conosce aggiunge che Rovere è “resiliente” (“cade e si rialza”, traduce un’amica), che “non è un modesto ma neanche finge di esserlo”, e che “conosce i propri limiti e quelli degli altri ma non per questo evita di sfidarli”. E il tema del limite è non a caso ricorrente nei due diversissimi film anche autoriali di Rovere: anche in “Veloce come il vento” c’è l’uomo (o la donna) da solo con se stesso di fronte a una serie di prove sovrumane in cui non sempre Dio ti aiuta (e Dio è inteso anche in senso ateo, come aspetto misterioso e inconoscibile della vita o come forza bifronte che può portarti a una sorta di dannazione). E quando sullo schermo, all’inizio de “Il primo re”, compare in exergo la frase di William Somerset Maugham “un Dio che può essere compreso non è un Dio”, è chiaro che non soltanto di limite si parla: Remo di fronte al divino che gli impone un destino contrario al suo sentire decide di “essere lui il suo Dio”; Romolo sfida il sé stesso “pio” diventando in parte come suo fratello dopo averlo ucciso; e la vestale che li accompagna custodendo il sacro fuoco trasforma la sua debolezza in forza belluina con l’equivalente del grido “siate maledetti”.

 

Anche produttore, senza scuole di cinema alle spalle, ex studente del Mamiani, “figlio tranquillo di famiglia borghese romana”

Il Nastro d’Argento vinto per la produzione di “Smetto quando voglio” di Sydney Sibilia, e l’inversione di ruoli come metodo

Certo è che l’obiettivo di Rovere – girare un film in protolatino con luce naturale e attori quasi scarnificati come fossero davvero viandanti sfuggiti a un nemico nell’VIII secolo – pareva sulla carta impresa azzardata (Paris descrive il socio come “un innovatore e rinnovatore che vuole fare film d’autore che siano anche popolari”). Lo dice anche la dichiarazione informale d’intenti sul sito della Groenlandia group: “L’autore in senso classico fa un passo indietro, facendosi affiancare dal produttore creativo, dallo sceneggiatore e dai finanziatori… L’obiettivo è quello di produrre audiovisivo di qualità, portando avanti una linea editoriale basata sulle storie e sulla valorizzazione della specificità di ogni prodotto…”. E però sul set de “Il primo re”, racconta un testimone, a volte ci si stupiva di essere riusciti a portare a casa la giornata, con tutto quel fango, quel freddo, quell’acqua, quella lotta da “homo homini lupus” che trova la libertà dopo un combattimento con gli altri e con se stesso.

 

Tutta epica? Non proprio: Rovere è diventato Rovere passando per la vita del “tranquillo figlio di famiglia borghese romana”, dice chi lo conosce, con fidanzata attrice-sceneggiatrice, zero caffè e poco rock’n roll.

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  • Marianna Rizzini
  • Marianna Rizzini è nata e cresciuta a Roma, tra il liceo Visconti e l'Università La Sapienza, assorbendo forse i tic di entrambi gli ambienti, ma più del Visconti che della Sapienza. Per fortuna l'hanno spedita per tempo a Milano, anche se poi è tornata indietro. Lavora al Foglio dai primi anni del Millennio e scrive per lo più ritratti di personaggi politici o articoli su sinistre sinistrate, Cinque Stelle e populisti del web, ma può capitare la paginata che non ti aspetti (strani individui, perfetti sconosciuti, storie improbabili, robot, film, cartoni animati). E' nata in una famiglia pazza, ma con il senno di poi neanche tanto. Vive a Trastevere, è mamma di Tea, esce volentieri, non è un asso dei fornelli.