Berlino 2019

Yurta movie

Mongolia, Austria, Italia. Film da festival declinati secondo i rispettivi caratteri nazionali

Mariarosa Mancuso

Film da festival, ancora film da festival, declinati secondo i rispettivi caratteri nazionali. Dalla Mongolia arriva lo “yurta movie” – definizione di un critico ignoto ma geniale – intitolato “Öndög” (vuol dire “uovo”). Il regista Wang Quan’an ha vinto un Orso d’oro nel 2007 con “Il matrimonio di Tuya”, conosce perfettamente la ricetta. Grandi spazi, fascinosi paesaggi, trama inesistente, tempi rilassati, tramonti e qualche spruzzata di assurdo. Telefoni cellulari, parabole satellitari, stacco sull’agnello sgozzato per preparare la cena. I fari di un’auto illuminano il buio – scena che piace tantissimo ai direttori della fotografia – e rivelano il cadavere di una donna. Un giovane poliziotto ha l’ordine di vegliarlo, i lupi dei dintorni sono famelici (alla stazione di polizia devono sgelare il corpo, prima dell’autopsia). Ascolta “Love me Tender” di Elvis Presley, balla, beve, si accoppia con la mandriana scaccia-lupi che vorrebbe tanto un figlio.

   

 

Dall’Austria arriva “Der Boden unter den Füßen”-“La terra sotto i suoi piedi”. Dirige Marie Kreutzer, una delle sette registe in gara quest’anno (intanto anche la Berlinale ha sottoscritto il documento “50/50 by 2020”, vale a dire parità tra maschi e femmine, nei ruoli artistici, dirigenziali e organizzativi, entro l’anno 2020). Sembra incredibile: il film inquadra la solita algida biondina in carriera, infelice come sempre sono al cinema le biondine in carriera. Va nel parco a correre di prima mattina e nessuno mai l’aspetta nella casa bianca e acciaio. Fa il classico mestiere delle infelici biondine in carriera: consulenze per la riorganizzazione aziendale, che vuoi dire, più o meno, “licenziamenti”. L’avvertono che la sorella ha tentato il suicidio mandando giù un centinaio di pillole. E su questo tema la regista pigramente conduce il suo film, lasciando il finale apertissimo.

  

 

Dall’Italia arriva “La paranza dei bambini”, che il regista Claudio Giovannesi ha tratto dal romanzo di Roberto Saviano (nelle sale da oggi). Il marchio di fabbrica funziona come calamita per il pubblico di riferimento – altri “argomenti di vendita”, come si legge sulle schede che propongono ai librai le novità in uscita, non se ne vedono. E’ il genere di film che funziona benissimo per l’esportazione (al mercato interno sono destinate le commedie, fino a esaurimento del pubblico – le idee degli sceneggiatori sono esaurite da un pezzo, guardare per credere “Modalità aereo” di Fausto Brizzi).

  

Altra ricetta collaudata per piacere ai critici, Claudio Giovannesi l’aveva già seguita in “Fiore” (uscito nel 2017 e ambientato in un carcere minorile). Primo ingrediente, i ragazzini – qui sono parecchi, meno caratterizzati che sulla pagina. Secondo: l’ambiente povero e degradato del sud. Terzo: la malavita che attira più della scuola e promette guadagni facili. Quarto: una madre che si ammazza di lavoro. Quinto: il dialetto stretto con i sottotitoli. Sesto: mobili dorati in quantità, tappezzerie vistose, un contrabbasso porta-liquori. Settimo: un dettaglio che susciti nello spettatore tenerezza verso gli apprendisti criminali (il posto da sogno dove amoreggiare, non sono i Caraibi bensì un resort a Gallipoli).

  

“Paranza” sta per gruppo armato, oltre che per i pesciolini accecati dalla luce che rimangono nella rete. I ragazzini “resi ciechi dal consumismo” – sempre lì stanno le colpe, nella felpa e nel paio di scarpe nuove – si danno da fare nel rione Sanità, momentaneamente sguarnito di camorristi adulti. Attori presi dalla strada, come nel neorealismo che non si riesce mai ad archiviare. Potrebbe scapparci un premio. 

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