Blackkklansman

di Spike Lee, con Adam Driver, Harry Belafonte, John David Washington, Laura Harrier

Mariarosa Mancuso

Alla fine degli anni Settanta, per un nero era già abbastanza difficile farsi arruolare come poliziotto. Infiltrarsi nel Ku Klux Klan non sembrava neppure immaginabile: una delirante fantasia su cui nessuno avrebbe scommesso. Ron Stallworth ebbe il suo distintivo nel 1972, a Colorado Springs. Se lo levò pochi giorni dopo, per un’operazione sotto copertura, infiltrato in un night club dove teneva un comizio l’attivista per i diritti civili – e primo ministro onorario delle Black Panther – Stokely Carmichael. Nel 1979, gli capitò sotto gli occhi un annuncio per reclutare nuovi membri del Ku Klux Klan. Senza pensarci troppo scrisse alla casella postale per offrirsi volontario, firmando con il suo nome e mettendo in calce l’indirizzo e il numero segreto dell’ufficio. Pensava che gli avrebbero spedito un volantino, dopo pochi giorni il capetto locale lo chiamò al telefono. Riuscì a reggere il colpo: gli insulti razziali li conosceva fin troppo bene, glieli avevano urlati per anni. E sapeva far bene “la voce da bianco” (una mezza fissazione, quest’anno: era anche in “Sorry to Bother You” di Boots Riley, presentato al Sundance e uscito negli Stati Uniti qualche mese fa, protagonista un venditore nero che al call center parla come un bianco, da qui la rapida ascesa). All’appuntamento mandò un collega ebreo. Nel film sono John David Washington (figlio di Denzel Washington, aveva debuttato ragazzino in “Malcolm X” di Spike Lee, accanto al genitore) e Adam Driver, bravo ma con una faccia troppo moderna per gli anni Settanta. Se un regista bianco avesse osato certe capigliature afro lo avrebbero messo in croce per eccesso di stereotipi, Spike Lee invece può. Può anche dire impunemente che Prince gli ha mandato una canzone dall’aldilà. Trattasi di registrazione risalente al 1983, ritrovata per caso, di uno spiritual cantato dagli schiavi, che nel film accompagna le immagini della strage a Charlottesville. Il finale, il discorso di Harry Belafonte, gli insistiti parallelismi con le parole d’ordine di Donald Trump – da “America First” o “Make America Great Again” – fanno sprofondare nella didattica un film che era partito benissimo. Grand Prix a Cannes 2018.

 
 

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