Una scena di Sibel

Promesse mantenute al Locarno Festival

Mariarosa Mancuso

La “donna turca muta” di Sibel celebra i giorni gloriosi del cinema che considera lo spettatore pagante un inutile disturbo

Promesse mantenute. La “donna turca muta” – annunciata come imperdibile gioiello nella conferenza stampa del Locarno Festival – celebra i giorni gloriosi del cinema che considera lo spettatore pagante un inutile disturbo. Allo spettatore coatto, fornisce informazioni sulle lingue fischiate. Oltre che in Turchia, nel villaggio di Kuskoy, esistono in Cina, in Messico e nelle isole Canarie (dove il “silbo gomero” sarebbe secondo l’Unesco patrimonio dell’umanità). Servono per le comunicazioni di servizio a distanza, nelle zone impervie: un fischio arriva più lontano di un urlo.

 

Diretto da Cagla Zencirci e Guillaume Giovanetti, lei turca e lui francese, “Sibel” racconta una diana cacciatrice che scuoia serpenti e scava trappole per il lupo, poi torna a casa e cucina le lenticchie per papà (esiste anche un’altra sorella, che non mette il velo con la giusta convinzione; e invece dovrebbe, essendo ragazzina ma già promessa sposa). Nella trappola Sibel trova un uomo ferito, lo guarisce, lo osserva mentre si fa la doccia nudo nel bosco, sappiamo come andrà a finire. A Hollywood o nei luoghi di interesse puramente etnologico, per i registi maschi o le registe femmine, la trama “nella vita di una donna serve un uomo” va sempre fortissimo. Nessuno mai che la trovi irritante o scontata, mentre si firmano solennemente impegni sulla parità di genere e l’inclusione (lo aveva già fatto Cannes, la Mostra di Venezia ancora bada al merito).

 

“Nella magica cornice di Piazza Grande” – frequentando Locarno da parecchio siamo cresciuti ascoltando la frase fino a non poterne più, vederla scritta dai giovani critici fa vacillare la fiducia nell’umanità – abbiamo visto invece “les débiles”. Lo dicono nel film, e sta per “disabili mentali” (con molta correttezza politica in meno). Fanno parte di una squadra di basket avviata verso le Paralimpiadi del 2000, a Sydney. Mentre si stanno allenando, un po’ di giocatori abbandonano. Da qui l’idea di sostituirli con atleti che disabili non sono, solo un po’ indietro con gli studi e il lavoro: uno vuol fare l’attore, ha trent’anni, e vanta soltanto uno spot pubblicitario mai visto in Francia; gli altri sono variamente disoccupati.

 

Diretto da Yanney Lebasque, “Les Beaux Esprits” racconta un’incredibile ma vera truffa parasportiva accaduta in Spagna. Le scene più spassose – astenersi se pensate che sulla disabilità mentale non si scherza – mostrano i colloqui con la psicologa incaricata di certificare il ritardo cognitivo (tra un po’ esauriamo gli eufemismi, mentre il film ha “les débiles” come tormentone). Consigli: parla lentamente, comportati come un bambino timido, alza gli occhi al cielo prima di rispondere. Sconsigli, all’attore che cerca di imitare Tom Hanks in “Forrest Gump”, sguardo fisso e mani sulle ginocchia: “lascia perdere, così nessuno ti crederà”.