Massimo Troisi

A cena con Troisi, il “Girasole” di se stesso

Giovanni Benincasa

Il 4 giugno di 24 anni fa è morto l’Amico. Era una scultura vivente, un incendio pittorico lui stesso

Il 4 giugno di 24 anni fa è morto Massimo Troisi, l’Amico: una colata lavica scese su tutta la mia vita di allora e pietrificò la mia ultima risata: ancora oggi vado a visitare le rovine di me stesso e il mio calco pietrificato, in quegli anni, in quelle ore, che ride.

Io penso che Massimo Troisi appartenga a una rarissima categoria di uomini che si sono espressi in arti o in lavori – pittura, musica, letteratura, altro – senza che ce ne fosse assolutamente bisogno. Perché Troisi era una scultura vivente, un incendio pittorico lui stesso. E il fatto che abbia sputato parte della sua grandezza in pochissimi film non ha alcun valore, se non quello di fissarlo nella nostra memoria o nei nostri schermetti. Voglio dire questo, voglio tentare di farmi capire: Massimo Troisi è il quadro, la partitura, l’Opera. Non ha bisogno di esprimersi.

Io sono andato a cena con Massimo Troisi. Un collezionista ha invece comprato un Van Gogh. Due forme, due pitture, due installazioni.

 

La mia cena con Troisi ha però più valore dei “Girasoli” o di qualunque altra tela concorrente. Io sono stato davanti alla mia Opera per sole due ore, o poco più, mentre il Van Gogh può rimanere fisso alla parete per 10 vite. Durante il nostro pasto, Massimo ha detto cose memorabili suonando se stesso, il Suo stesso strumento, impastando parole divertentissime col movimento della sua faccia e delle sue mani. Un capolavoro. Un capolavoro solo per me, piccolo collezionista di persone introvabili.

Al momento del conto, quei girasoli erano appassiti per sempre. Fortuna che di conti così ne abbiamo pagati centinaia, io e Massimo. Ed è così per tutti quegli uomini che sono Opere d’arte loro stessi.

Per Massimo, un solo movimento del suo braccio bastava a disegnare un Dio.

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