Una scena del film "Call me by your name"

Il “wardrobe malfunction” di Armie Hammer

Mariarosa Mancuso

Non succede solo alle donne. In “Call Me by Your Name”, l’ultimo film di Luca Guadagnino, i calzoncini anni 80 dell’attore erano così succinti che qualcosa spuntava fuori

“Wardrobe malfunction” era finora la formula usata quando la tetta di un'attrice o di una cantante, sul palcoscenico o alla serata degli Oscar, sgusciava via dal vestito per mostrarsi in tutto il suo splendore. Vale anche per la mutanda, o peggio per la guaina spanx, lasciate intravedere da uno spacco troppo audace (o malgovernato quando si scende dalla macchina, son cose che le mamme non insegnano più). Non pensavamo potesse succedere ai maschi. Sbagliato. In una spassosa intervista circolante sul web – farà anche danni, la rete, ma vedere Armie Hammer che arrossisce imbarazzato vale una masnada di “cretini specializzati”, copyright Ennio Flaiano – l’intervistatore affronta la delicata questione “Armie’s short shorts”. Pronta spiegazione, se non ci siete arrivati da soli: in “Call Me by Your Name” – l’ultimo film di Luca Guadagnino tratto dal romanzo di André Aciman “Chiamami col tuo nome (Guanda) – i calzoncini anni 80 dell’attore erano così succinti che qualcosa spuntava fuori. A cancellare il superfluo – cinematograficamente parlando – sono intervenuti gli specialisti in fase di post-produzione: fanno miracoli, ma non hanno impedito che il film venisse subito ribattezzato “Ball Me by Your Name”. Anche la battuta sul “Pair of Peaches” riesce bene, visto e considerato che tutti i recensori americani e festivalieri – il film era alla Berlinale 2017 – riferiscono incantati di una pesca matura usata a scopo erotico.

 

Era andato tutto bene, almeno dal punto di vista guardarobiero, nel film che Luca Guadagnino aveva girato nel 2009, titolo “Io sono l’amore”. La costumista Antonella Cannarozzi era stata candidata all’Oscar, cosa rara per un film non in costume (bisogna dire che certi vestitini, indossati da Tilda Swinton con gli interni déco di villa Necchi Campiglio come sfondo, facevano un gran bell’effetto). Non sapendo l’inglese, non conoscendo gli Stati Uniti, temendo l’aereo, non possedendo una carta di credito, si era fatta accompagnare dall’amica – e regista in cerca di finanziamenti – Monica Stambrini. Racconta tutto il documentario “Lady Oscar”, presentato ieri al festival milanese Filmmaker (a Monica Stambrini si deve tra l’altro il porno-femminista “Queen Kong”). Risolto il problema guardarobiero di Armie, auguriamo a Luca Guadagnino il radioso futuro – si parla anche di Oscar – che il passaparola critico riserva al suo film. Non è prodotto da Harvey Weinstein, primo punto a suo favore. Il regista non è stato travolto dal ciclone molestie, secondo punto a suo favore. Ci sarebbe la situazione scabrosa, tra il diciassettenne – l’attore Timothée Chalamet, strepitoso a furor di critico, lo dicono i maschi e lo dicono le femmine – e il professore più grande. Nell’estate italiana, con molto tempo libero per il bagno, le gite in bicicletta, la occhiate languide, la pennichella, la seduzione (anche) intellettuale.

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