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Gli Oscar e il nemico Trump

Mariarosa Mancuso

Il problema andrebbe risolto alla fonte, impedendo agli attori di parlare fuori dai set (tanto, se non rilasciano dichiarazioni sull’orribile Donald Trump ci indottrinano sulla catastrofe ecologica, evergreen per tutte le stagioni)

“Inizia la stagione degli Oscar più arrabbiata di sempre”, annuncia Deadline. Il nemico si si chiama Donald Trump, sotto accusa lo stato delle cose americane: i registi che hanno un film in promozione ne approfittano per esibire pessimismo e impegno civile (tanto si sa che chi ha votato Trump al cinema va poco o niente, nemmeno guarda Netflix).

 

L’informatissimo Deadline deve aver dimenticato quando alla Casa Bianca c’era George W. Bush, e una conferenza stampa di film USA all’estero non poteva dirsi conclusa senza una dichiarazione di pacifismo e una strizzata d’occhio “all’America che ci piace”. E sembra aver dimenticato che la presidenza Barack Obama ha generato una marea di film sui neri in quanto neri, puntualmente premiati con l’Oscar. Da “12 anni schiavo” del britannico Steve McQueen (tenere gli artisti lontani dal cinema, please) a “Moonlight” di Barry Jenkins (unico film di passione omosessuale dove si vedono pettorali nudi e niente più: tasso di credibilità che credevamo riscontrabile solo in “Noi due”, con Sabrina Ferilli e Margherita Buy).

 

Il problema andrebbe risolto alla fonte, impedendo agli attori di parlare fuori dai set (tanto, se non rilasciano dichiarazioni sull’orribile Donald Trump ci indottrinano sulla catastrofe ecologica, evergreen per tutte le stagioni). “Abbiamo lasciato che accadesse. Abbiamo smarrito ogni morale”, dichiara Robert Redford in un’intervista su Esquire. Intende: il popolo americano alle urne. Non, come sarebbe più giusto, la scena di “Le nostre anime di notte” dove Jane Fonda è nuda nel letto, e lui si infila nel medesimo con il pigiama abbottonato fino al colletto. Più interessante ancora sarebbe sviscerare il criterio in base al quale il regista Ritesh Batra (indiano di Mumbai, handicap non da poco per un film ambientato nel profondo Colorado) punisce Jane Fonda con un parruccone grigio, mentre lascia a Robert Redford la tintura color carota. (Ci sarebbe la risposta: “se no se ne andava dal set”, ma non siamo tanto maligni neppure noi).

 

Invece di pentirsi per il brutto film che ha girato – “mother!” di Darren Aronofsky due ore per dire che gli scrittori son vampiri e le femmine volentieri stanno al gioco – Jennifer Lawrence crede che gli uragani siano la manifestazione dell’ira divina scagliata contro gli americani che hanno votato Trump (gente che non va al cinema, come nessuno di buonsenso andrà a vedere “mother!” uscendone soddisfatto).

 

George Clooney è stato contro le multinazionali, per la stampa libera, contro i politici corrotti, contro i nazisti che si fregavano le opere d’arte. In “Suburbicon» racconta che i padri di famiglia bianchi commettono crimini, e i neri invece sono un modello di virtù. Ambienta il suo film negli anni 50, in una città-modello. Qualcuno avrebbe dovuto spiegargli che i neri lì non entravano, neppure come servitù.

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