Il regista Sergej Loznitsa (secondo da sinistra) e il cast di “A Gentle Creature” (foto LaPresse)

A Cannes 2017, per due ore, la Palma d'Oro è stata russa

Cannes 2017

Il nostro favorito, “A Gentle Creature” di Sergej Loznitsa. Un film a cui servirebbe un play doctor, e altri pazienti da visitare

Per un paio d’ore la Palma d’oro è stata russa. No, a Cannes non hanno ancora dato i premi, e neppure hanno combinato un pasticcio a imitazione degli Oscar. La Palma d’oro è stata russa, assegnata per indiscutibile merito mentre guardavamo “A Gentle Creature” (così il titolo internazionale, ispirato al racconto “La mite” di Fëdor Dostoevskij). Il regista Sergej Loznitsa – nato in Bielorussia e cresciuto a Kiev, suo il documentario “Austerlitz” ispirato al saggio di W. G. Sebald – non sbaglia un colpo nel raccontare la storia di una donna che vuole far avere al marito carcerato scatolette e mutande. Sull’autobus, una signora sbraita perché il pacco le rovina le calze. Tre minuti dopo, i passeggeri discutono della vita e della morte. Il tassista, alla stazione, neanche le chiede dove va – altro da visitare non c’è, il manicomio lo hanno bruciato i ricoverati – e subito celebra la prigione che fa girare l’economia. Quasi un musical, tutto miseria e squallore. I russi cantano sempre, e se non cantano tengono accesa la radio. Magnifico fino a quando, nel finale, arriva un inutile sogno, per illustrare quel che avevamo capito benissimo. Si può togliere – con un’incisione chirurgica da fare con urgenza – senza che “A Gentle Creature” ne risenta. Le due ore rimanenti volano via tra il grottesco e l’assurdo.

 

Non è l’unico film, tra quelli presentati al 70° Festival di Cannes, che avrebbe bisogno di un “play doctor”. Si chiamano così i dottori che invece di aggiustare gambe aggiustano le sceneggiature che zoppicano. Ogni play doctor sa, come spiegano anche i manuali, e i corsi su internet, che tra le malattie più diffuse c’è il problema del secondo atto (servirebbe un vaccino). Nel primo atto (più o meno la prima mezz’ora) vengono presentati i personaggi e la missione da compiere. Nel terzo atto la missione si compie. Nel secondo, devono succedere abbastanza incidenti da ritardare il compimento della missione. La parte più difficile da scrivere: gli incidenti non devono essere pretestuosi, e i personaggi devono acquistare rotondità (se attraversano il film restando uguali, la sceneggiatura è sbagliata: certo, nella vita succede, per questo il cinema è più divertente).

 

Ha un problema con il secondo atto “Loveless” di Andrei Zvyagintsev, l’altro regista russo favorito per la Palma d’oro. Benissimo i genitori che litigano senza accorgersi del figlio che piange nella camera, benissimo la sparizione del ragazzino, benissimo lo sguardo sugli appartamenti eleganti – catapecchie ne abbiamo viste fin troppe, benissimo il finale tragico. Ma quando comincia la ricerca del ragazzino scomparso, sembra che parta un documentario di raccolta fondi: i volontari avanzano nel bosco, si fermano, chiamano, avanzano di nuovo, chiamano ancora. E la tensione si ammoscia.

 

Ha bisogno di un play doctor – secondo atto, di nuovo, con la complicazione di un finale troppo debole per la fantasia satirica sfoderata in precedenza – anche “The Square”. Ruben Ostlund sa intrecciare la comicità con l’imbarazzo – come il battibecco sul preservativo da gettare via: “Lo butto io”, “no, lo voglio buttare io”, e certi dialoghetti sul mucchio di ghiaia esposto nella galleria d’arte. Non ha capito che ficcarle nello stesso film lungo due ore e mezzo, senza darsi la pena di costruire una trama, affatica lo spettatore. Dovrebbe farsi visitare da uno bravo anche “Wonderstruck” di Todd Haynes. I personaggi sono due ragazzini entrambi muti. Entrambi cercano qualcosa a New York, a distanza di mezzo secolo. Finale incantevole, ma arriva troppo tardi. Prima, si divertono solo lo scenografo e il direttore della fotografia.