Elle Fanning al Festival di Cannes (foto LaPresse)

Il Festival più passatista di sempre, e sempre più piatti da lanciare al muro

Mariarosa Mancuso

Tv manco a parlarne. Oggi comincia il filone migranti

Alla vigilia, si discute dei massimi sistemi. Anche delle rendite di posizione nel mondo che cambia (non di rado le due cose viaggiano insieme, i primi fanno da paravento alle seconde). Si può chiamare cinema quello che non viene programmato nel buio della sala? Assolutamente no, rispondono i distributori francesi. Certo che sì, rispondono tutte le persone di buon senso, tanto più se son titoli meritevoli di partecipare a un festival. Gli sceneggiatori (sempre francesi) stanno in mezzo al guado – le serie tv hanno molto allargato la committenza, i progetti vengono approvati più velocemente – e invitano al dialogo.

 

Dopo aver visto il film d’apertura al Festival di Cannes, edizione del Settantesimo, chi ama il cinema ha un solo pensiero: guardare fisso Hbo, Netflix o Amazon per il resto della vita. Lì non hanno cittadinanza – per ora almeno – pasticci d’autore come “Les Fantômes d’Ismaël”, opera ultima di Arnaud Desplechin (regista francese fino al midollo ma finora non spregevole, perfino dotato di ironia). Visione faticosa, ma molto istruttiva: è un perfetto esemplare della categoria che resterà fedele al festival, e alle sue regole datate, e alle ancor più datate “finestre” stabilite dalla legge francese. I 36 mesi necessari perché un film uscito in sala possa essere messo in streaming trattano gli abbonati Netflix – cento milioni paganti nel mondo – come un pubblico residuale, paragonabile agli spettatori dei cinema di terza visione (quando c’erano le terze visioni, e un film passava dalle sale del centro alle sale pulciose di periferia).

 

 

 

Siccome confessano senza bisogno di interrogarli, Arnaud Desplechin racconta così il suo capolavoro (celebrato con cinque stellette anche dal settimanale popolare Télérama, ormai non c’è salvezza). Testuale: “Penso alle mie storie come a una pila di piatti da lanciare contro lo schermo. Quando i piatti sono tutti rotti, il film è finito”. La dichiarazione d’intenti, che scomoda Jackson Pollock e il suo dripping (tanto fascinoso quando contava solo l’estetica, non la lettura contenutistica: “sono nudi di donna concentrati”) produce un film smisurato nelle ambizioni quanto imbarazzante nei risultati.

 

Primo piatto da fracassare contro il muro: un film nel film (che è già un pessimo segno) scritto dal regista e sceneggiatore Mathieu Almaric con l’aiuto di molte sigarette. Racconta – per quel che si capisce – una spia autodidatta dal curriculum misterioso. Secondo piatto da fracassare contro il muro: un regista che non riesce a finire il film, e con il ritratto dei coniugi Arnolfini dipinto da Van Eyck sullo sfondo (non più un riferimento per pochi eletti, era nella sigla delle “Desperate Housewives”) illustra al suo produttore la teoria dei piatti lanciati contro il muro. Il produttore si spazientisce e lo chiude nel bagagliaio della macchina: quel che avremmo voluto fare noi, e che sicuramente vorreste fare anche voi (pericolo scampato, sarà difficile che arrivi sulle multinazionali dello streaming).

 

Terzo piatto da fracassare contro il muro: Marion Cotillard (ma-che-occhi-grandi-hai). Dopo aver fatto perdere le sue tracce per venti anni, e aver quasi fatto morire il padre di crepacuore, torna come se niente fosse. Sospettiamo sia scappata perché neanche lei sopportava le paturnie del consorte regista Mathieu Almaric. Invece no, lo rivuole indietro strappandolo a Charlotte Gainsbourg. Astrofisica, che sicuramente vorrà dire qualcosa ma non sapremmo dire cosa. Da oggi, migranti a volontà. Comincia Vanessa Redgrave con il suo “Fuocoammare”, intitolato “Sea Sorrow”.

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