Federico Fellini (foto Wikimedia)

Ammucchiate divine raccontate da Fellini

Mariarosa Mancuso

“Olimpo, esterno giorno”: era il soprannome dello sceneggiatore Ennio De Concini, nato nel 1923 e morto nel 2008. Colpa, o merito, di 150 copioni non di rado scritti in contemporanea, l’horror in una stanza e in un’altra la commedia. Suoi anche “Divorzio all’italiana” e “Un maledetto imbroglio”, adattamento per il cinema di “Quer pasticciaccio brutto de via Merulana”, scorribanda romana del milanesissimo ingegnere Carlo Emilio Gadda. Inventò il filone mitologico – molti anni prima di dare il via al filone mafioso con “La piovra” – e disinvoltamente trattava l’Olimpo al pari di un palazzo con litigiosi inquilini.

 
L’Olimpo di Federico Fellini – come il regista lo racconta in un testo finora inedito, ritrovato da Rosita Copioli e pubblicato dalla nuovissima casa editrice Sem – ha qualche sfumatura in più. “Una luce incertissima, né di giorno né di notte, completamente artificiale perché ‘fuori del tempo’; anche il luogo è incertissimo, la cima di una montagna, sembra, o una cava franosa, tra nuvole che scorrono via; o potrebbe essere nebbia, fittissima, o fumo, o incenso di sacrifici”. Oddio, non sarà un po’ troppo? Magari lo sfoggio di un regista e vignettista che sulla carta si sfoga senza dover chiedere soldi ai produttori?

 
Niente affatto. Le 86 pagine di “L'Olimpo: Il racconto dei miti” (140 pp., 15 euro) scorrono veloci, perfino un po’ sgangherate, con uno Zeus erotomane sempre a caccia di qualcosa che plachi la sua mostruosa erezione. In caso di dissenso, prendetevela con Fellini, non sparate sulla cronista: finalmente si pareggia il conto con le tette gigantesche, la Gradisca, il “voglio una donna” urlato da Ciccio Ingrassia, l’harem di Mastroianni. Il regista prese a raccontare gli dèi dopo “La città delle donne”, uscito nel 1980. Voleva ricavarne un film in due parti – 4 anni prima Bernardo Bertolucci aveva girato “Novecento” – o ricavarne “una trasmissione serializzata per la tv”.

 
Non se ne fece nulla. Hai voglia a parlare di cinema fantastico e di “ritorno a Méliès”: quando a pagina due del copione un figlio (Crono) stacca “con un falcetto di pietra” i testicoli (giganteschi pure loro) al padre (Urano). I produttori si ricordano di un impegno urgentissimo e poi si negano al telefono per sei mesi a venire. Non riprendono interesse al progetto neppure quando Zeus fa il divino pappagallo – inteso come corteggiatore di turiste, “signorina posso farle compagnia?” – con la futura moglie Era. L’intermezzo comico finisce quando Era trova un uccellino con le piume bagnate, lo accarezza, se lo scalda in petto. Sorpresa! E’ Zeus che riprende la sua forma, a pisellone ritto. Segue una notte di nozze lunga trecento anni.
“Mitologia da seconda liceo, con un po’ di psicoanalisi”. Promessa mantenuta. Il venerato maestro aveva un debole per le ammucchiate divine.

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