Donald Trump ha sottovalutato la guerra dei popcorn con il Messico

Mariarosa Mancuso

Ramirez minaccia di non comprare più granturco americano

Certe notizie valgono un romanzo. Questa, anche un trattatello di politica economica. Uno sguardo in prospettiva che a Donald Trump sfugge, ossessionato com’è dai muri e dagli accordi da disfare. Era sul Guardian, qualche giorno fa. Per illustrazione, un bidone di popcorn. Alejandro Ramirez, proprietario della messicana Cinépolis – leggi: la prima catena di sale cinematografiche in America Latina e quarta nel mondo, con 400 sale in Spagna – minaccia di non comprare più granturco dagli Stati Uniti, se l’accordo Nafta per il libero scambio venisse abolito (come Donald Trump minaccia di fare, il muro con il Messico non gli basta). Popcorn per dieci milioni di dollari, attualmente comperato in Kansas, nel Missouri e nell’Iowa. Conviene, con le norme vigenti. Quando le cancelleranno sarà più economico rifornirsi in Argentina, spiega il tycoon centroamericano delle sale cinematografiche. Assieme al Nafta, o accordo di libero scambio tra Usa Canada e Messico, se ne andranno i 40 milioni di dollari che attualmente il gruppo Cinépolis investe in schermi e proiettori made in Usa. Tra le perdite secche, bisogna calcolare anche i sei milioni e mezzo di dollari attualmente spesi in Wisconsin per approvvigionarsi di formaggio da nachos (non di solo popcorn vive lo spettatore messicano).

 

Gli agricoltori non saranno contenti. Neppure i produttori di formaggio. Meno che mai i fabbricanti di schermi e proiettori. Aggiungete che negli Stati Uniti la distribuzione è sempre più “immateriale”: i piccoli o minuscoli schermi per lo streaming, legale o no, stanno scalzando gli schermi collettivi dove si masticano vasche di popcorn. Il Messico ancora resiste, come resiste il gigantesco mercato indiano, che però i film se li produce a Bollywood e preferisce i samosa. Niente lieto fine: le fabbriche potrebbero chiudere, il granturco americano potrebbe perdere il suo principale mercato, ed è verosimile in queste circostanze i disoccupati – o gli svantaggiati, o gli impoveriti – che hanno votato per Donald Trump saranno i primi a pagarne le conseguenze. Resterebbe il mercato interno, per i popcorn che hanno conquistato anche i cinema d’essai del Greenwich Village, garantiti con burro biologico; una gag nel paese che in preda a una precedente mania salutistica inventò la margarina: “I Can’t Believe It’s Not Butter!®”. Piccolo intoppo: una delle principali catene di sale cinematografiche Usa – la Amc – appartiene ai cinesi di Wanda Group. Nelle mente di Trump, gli altri arcinemici del popolo americano. Mandarli a casa magari no (tra miliardari non usa). Regolamentarli con quote e dazi, sì. Ma è evidente che i cinesi non staranno a guardare, e reagiranno con le loro barriere.

 

Da un bel po’ i cinesi nei film hollywoodiani non fanno più la parte dei cattivi. Se un astronauta si perde su Marte, mettono a disposizione i propri mezzi e cervelli per riportarlo sulla terra. Se il maestro di un supereroe sballato come il Dr. Strange è un monaco tibetano, lo fanno diventare Tilda Swinton, scozzese e androgina. I cinesi le quote relative ai film d’importazione già le hanno, per aggirarle fioriscono le coproduzioni Usa-Cina come “La grande muraglia” di Zhang Yimou: il regista di “Lanterne rosse” alle prese con mostri affamati di carne umana (ecco a cosa serviva il muraglione). Le frontiere chiuse a oriente priverebbero Hollywood del principale mercato mondiale (tale sarà la Cina, tra un paio d’anni soltanto). La guerra dei popcorn sembrerà allora una barzelletta, e forse Trump avrà capito che Hollywood vende sogni ma incassa soldi veri. 

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