Vini verticali. Il racconto del rapporto tra uomo e montagna, nel cuore di Milano

Domenica 13 e lunedì 14 marzo, 50 piccoli produttori del Trentino e dell'Alto Adige Vignaioli di Montagna si incontrano al Base per proporre i loro vini artigiani, da sorseggiare insieme alle storie di chi vive e produce in alto

Maurizio Baruffaldi

Ho vendemmiato una sola volta. Da ragazzino, in una zona di montagna. Ricordo la testa che cercava l’ombra della vite, l’appiccicare zuccherino, quel paesaggio che ti faceva sentire minuscolo e immenso. E alla sera, i primi bicchieri della mia vita. Un momento che ho riesumato quando ho letto che al Base ci sarebbe stato l’evento Vignaioli di Montagna, vini e cinema delle terre alte: il racconto del rapporto tra uomo e montagna, nel cuore di Milano. Vini verticali in una città che si vanta dei giardini verticali.

      

     

Domenica 13 e lunedì 14 marzo, 50 piccoli produttori del Trentino e dell’Alto Adige hanno proposto i loro vini artigiani, da sorseggiare insieme alle storie di chi vive e produce in alto. Ne ho parlato con Eugenio Rosi, un viticultore della Vallagarina, zona che l’Adige accompagna dalla punta del Garda verso Trento. Eugenio si definisce orgogliosamente contadino, “perché vive della sua terra, e non fa sempre la stessa cosa”, e artigiano, appunto, “perché trasforma, l’uva in vino, seguendola”. Ha portato con sé una bottiglia di queste sue trasformazioni, che rendono le parole, se non superflue, sicuramente minori. E migliori.

“Per me è un po’ strano: ieri ero lì col badile, oggi sono qui a far interviste dove non so bene cosa dire.”

  

Beh, il badile ne ha da raccontare. Hai usato il verbo ‘seguendola’, l’uva, nella tua azione biblica di viticoltore artigiano. 

“Sì, ma non creiamo, noi. Io ci vedo più una cosa da genitore. Non stai a indicare. Devi esserci. Stare insieme. E interpretare. Il vino territoriale non puoi farlo come vuoi tu, non parte dalla tua immaginazione. La bravura in cantina è accompagnare. Se intervieni cambi il percorso. Devi portare la tua bottiglia all’origine, dell’uva, alla sua potenzialità. E amplificare le sue caratteristiche. Alla fine quello che arriva ti sorprende. Un vino irripetibile. Invece quasi tutto è fatto in funzione di un obiettivo".

  

L’industria è figlia di gusti obbligati. E di programmazione, per ottimizzare i tempi.

“Bisogna rivalutarla, invece, la valenza del tempo. La natura ha il suo e dobbiamo rispettarlo. Certo, poi il vino diventerebbe naturalmente aceto, e qui c’è l’artigiano”.

 

O il genitore. Tu cominci, però, come enologo.

“Poi non ce l’ho fatta più. Volevo tornare in campagna. Non mi è mai piaciuto andare all'asilo e gli unici ricordi che ho di questo periodo è di quando rimanevo a casa per andare in campagna con mio padre. E allora, con mia moglie, e grazie ad altri amici preziosi che mi hanno sostenuto, abbiamo preso in affitto questi terreni”.

  

   

Il primo vino Eugenio lo chiama Esegesi, nome pretenzioso che spiega però esatta la sua missione: per esegesi si intende una digestione studiosa, che distilla, rende trasparente, e rivela. Nessuna fulminante intuizione d’artista.

“Questa non è enologia. L’uva ha una sua vocazionalità. Tu devi piazzare la vite nel punto esatto, dove sta bene, dove è a casa, nel suo grembo. E ci vogliono anni di lavoro e attenzione. Poi raccogliere uva sana. E matura. Da questo si parte. E hai una sola vendemmia, ogni autunno. Una sola possibilità. Sai quante botti dobbiamo buttare via?”

 

Una domanda che fa leggera, senza risentimento. Il grande giocatore accetta il suo rischio.

“E per me è fondamentale la coscienza di chi è stato prima, e cosa ha fatto. Penso al mio amato Marzemino, portato in queste valli nel ‘500 dai veneziani, con la sua buccia sottile, sensibile alle rotture, alle eventuali piogge, che soffre per arrivare alla giusta maturazione. Se è ancora qui, vuol dire che aveva un senso. Noi, con le tecniche di oggi, dobbiamo capire qual è adesso questo senso. Mi avevano insegnato come togliere acidità dal vino, adesso che tutto è anticipato, devi aggiungerne. Prima sapevamo che andava raccolto tardi, ora che il clima è cambiato, per dare prolungamento alla maturazione ci aiutiamo con l’appassimento, cullato dalla brezza calda dell’Ora del Garda, tradizione affinata nei secoli. Oggi è trattato da vino sempliciotto, da beva in osteria, invece deve dare qualcosa di importante: è dall’88 che dedico il mio tempo all’autoctono Marzemino ‘gentile’.”

 

La sua gentilezza non va sprecata o repressa.

“Devo cercare di capire dove può arrivare”.

  

Io intanto sorseggio, di nuovo, il suo Marzemino nella versione Poiema. Mentre Eugenio mi spiega che “in Trentino ci sono migliaia di km di muretti a secco, un patrimonio dell’umanità. Avevano bisogno dello spessore di terra per le radici, e facevano scalini alti.” E poi di questa sua valle, d’origine glaciale, un sonno di millenni che ha depositato ed emerso, l’argilla e il calcare, la minerale ricchezza e la preziosa aridità.

“Se ci trovi il lombrico la terra è buona. Perché va su e giù, e crea corridoi. Perché vedi, anche la meccanizzazione compatta la terra. Il trattore la schiaccia e quindi le manca aria”.

  

Faccio roteare il mio calice: Eugenio si è raccomandato di far prendere aria anche al vino versato. Gli dico che comunque, aldilà del mi piace o meno, c’è il dopo. In quel tipo di umore, che chiamerei sentimento, mi pare di distinguere la qualità di un vino. Mi allargo un po’, dopo il lungo sorso soddisfatto. Lui risponde annuendo, con quello sguardo di chi sa già, ha capito, ma nel quale è ancora appeso un grappolo di curiosità.

Dimmi della cantina.

“La cantina è la mia vita. Il vino si fa in cantina. Il peggior nemico del vino è la luce”.

  

Tengo questo terno secco.

“Nella mia ho appeso un cartello con scritto: Il passo del favore. Sta a suggerire un pensiero per chi viene dopo. A chi mi chiede: cosa posso fare io, se tutto va in altra direzione? Fai la tua parte. Io faccio la mia”.

   

Ma in montagna è più dura.

“In alto il terreno è poco. La regola è: ne fai meno, ed è più intenso, carico. E poi: dove c’è la cultura intensiva non hai animali, insetti, noi invece avevamo un vigneto in mezzo al bosco, nel 2008: se lo sono mangiato i cervi. O ancora: avevamo recintato, per proteggere dagli uccelli, poi un tasso ha strappato la rete, e lui e gli uccelli si sono dati da fare. E poi i funghi, e tutte le malattie della vigna: il meno possibile, ma le dobbiamo trattare”.

  

Da un’intervista allo scrittore/poeta Davide Brullo: “I maestri non rendono accessibile il difficile, addestrano alla scalata.” Ci metterei la natura, dove lui cita i maestri.

“Il vino ha un po’ dimenticato la sua umiltà,” dice convinto Eugenio, rispondendo a una sua riflessione muta.

 

Umiltà, che non significa sempliciotto. E se il vino è un narratore invisibile, viscerale, il cinema può mostrare solo quello che c’è verso il cielo. A cura del Trento Film Festival, che quest’anno compie 70 anni, domenica hanno proiettato ‘Everest - Sea to Summit’, un’ora di cinema del 1992 che segue il primo alpinista a raggiungere l'Everest a piedi, senza ossigeno, passo dopo passo. Dove la montagna, alla sua massima ambizione, si respira con gli occhi.

 

Perché è così longevo il festival? chiedo, mentre si avvicina Massimo Zanichelli, wine writer, assaggiatore professional e documentarista. A giugno uscirà il suo libro “Vini di montagna”, e tanto basta a coinvolgerlo nella domanda. Il dibattere a tre mette in campo un po’ di risposte: il CAI, che è molto forte; le associazioni di montagna radicate, che aggregano parecchio, e sempre. E poi il fatto che il montanaro, definito spesso un orso, è sì solitario, ma è solidale. E sa che può contare. Lo dice la parola per eccellenza delle altezze: il rifugio. Che anche quando è chiuso lascia aperto il bivacco. “In montagna ci si aspetta sempre di essere aiutati” è la frase che le comprende tutte.

 

E per chiudere, volo alto e scomodo il vate del vino nostrano, Luigi Veronelli: ‘Il vino è il canto della terra verso il cielo’. Azzardo che la montana ne è il gesto. E qui Eugenio stringe il gambo del suo calice.

“Lui sapeva bene dell’esclusività del luogo, tanto che voleva fare le Denominazioni Comunali. Quando gli mandai quel mio primo vino, mi disse: ‘Ho capito la tua idea, il tuo sforzo. Sappi che puoi fare di più’. È il più grande complimento, e la più grande motivazione, della mia vita”.

  

Impugno anch’io il mio calice, pronto a un brindisi finale.

“Chi beve deve imparare ad ascoltare” aggiunge Eugenio, di suo.

Io credo di far bene entrambe le cose, dico. E alziamo insieme l’ultimo sorso. Di Marzemino gentile, ma non troppo.