Bottega del Macellaio, Joachim Beuckelaer, 1568  

Gli italiani si mangiano il fegato. Il "quinto quarto" entra nel paniere Istat

Maurizio Stefanini

Chiusi in casa dal virus, abbiamo riscoperto frattaglie e interiora, che adesso fanno parte della statistica che fotografa l'inflazione. Come la macchina per impastare il pane. Riscoperta gastronomica o voglia di autarchia?

Conseguenza del lockdown: gli italiani si stanno mangiando il fegato. Non nel senso figurato, come illustrato ad esempio dalla nota canzone di Gigi Proietti. O meglio, probabilmente anche in quello: tra ristori che tardano o non bastano, vita sociale ridotta al minimo, servizi essenziali che funzionano. Ma quel che il nuovo paniere Istat per la misurazione dell’inflazione fotografa, con l’includere frattaglie e interiora, è il senso letterale. E non solo fegato: gli italiani chiusi in casa sono tornati a mangiare anche trippa, milza, animelle, cervello, cuore, polmone, rognone, e in genere tutto ciò che viene tradizionalmente chiamato “quinto quarto”.

  

     

Essendo stata la caccia la nostra attività più antica, l’uomo sa da sempre che queste sono le parti di un corpo morto che non solo vanno in putrefazione prima, ma rischiano anzi di far andare a male tutto il resto. Gli imbalsamatori egizi infatti gli organi interni li tiravano fuori subito, per conservarli in contenitori posti accanto al sarcofago principale. E anche nelle macellerie queste erano le parti che si cercava di dare via subito. A volte venivano usate per pagarci gli addetti alle macellerie stesse, altre volte venivano svendute in trattorie popolari.

     

  

Attorno allo storico mattatoio a Roma era nato appunto quel filone gastronomico chiamato della “cucina vaccinara” di cui fanno parte ad esempio la coda alla vaccinara, la trippa alla romana, la pajata, la milza di bue alla cacciatora, il torciolo arrosto, il rognone trifolato o in umido, l’intingolo di polmoncino, i granelli, la lingua in agrodolce o allo spiedo. “Romani dell’Armata, magna fritto e corata” erano sfottuti gli abitanti della zona tra Via Giulia e il fiume, che di quinto quarto si rifornivano molto. Ma anche i trasteverini erano soprannominati “magna-ventricelli” e “magna-matricole”.

     

  

In un modo simile è nato il pani ca meusa: panino alla milza che è icona dello street food palermitano. Sembra venga dall’epoca in cui i macellai erano ebrei. E simili cibi identitari sono diffusi un po’ dappertutto. Pure la milza è alla base dei famosi crostini toscani, che possono essere fatti anche con i fegatini. Mentre la trippa è la materia prima del panino col lampredotto fiorentino. Salame pezzente, nnoglia, nuglia o nnoglia, sausicchione, pezzendédde, tauciano sono i vari nomi di quel tipo di salume di frattaglie e spezie che con epicentro in Basilicata è diffuso dalla Campania alla Puglia e alla Calabria. Cotenne, orecchie, musetto, piedini e testa del maiale finiscono con le verze nelle diverse varianti della cassœula: piatto tipico lombardo, con propaggini in Piemonte e in Trentino. Il teteun valdostano si fa con le mammelle bovine.

   

     

Ancora dalla cucina vaccinara romana, il padellotto alla macellara è parente stretto della padellaccia umbro-sabin-marchigiana. La differenza è che nel primo caso si buttano in padella con olio e aromi le parti deperibili del bovino appena macellato, e nel secondo caso del suino. Sempre del suino l’intestino si usa da sempre per insaccarci salsicce e salumi, che possono essere fatti anche di sangue e fegato. Pezzi di testa di maiale nello stomaco sono alla base della coppa dell’Italia centrale: una preparazione simile alla tobă romena. Andando in giro per il mondo, forse la preparazione più identitaria di tutti nel genere è lo haggis scozzese.

   

   

Insaccato di cuore, polmone e fegato di pecora macinati assieme a cipolla, grasso, sale e spezie e mescolati a brodo, il tutto poi bollito nello stomaco dell’animale per tre ore, è la versione arrivata fino a noi di un tipo di preparazione antichissima: probabilmente il primo modo di cucinare carne non arrosto, usando come pentola da stufare lo stomaco della bestia uccisa. Anche i sioux di Toro Seduto e Cavalo Pazzo avevano una specialità del genere, che facevano dopo aver ucciso un bisonte. E simile è la buchada brasiliana, salvo che si fa con la capra. Simbolo della Scozia allo stesso modo della cornamusa, del kilt o del porta Robert Burns, lo haggis viene appunto mangiato ogni 25 gennaio nella cena in onore di Burns che è la festa nazionale scozzese. Tagliandolo con una spada, recitando i versi di Burns dedicato all’haggis, e possibilmente anche in kilt e ascoltando cornamuse.

  

    

In genere alla base di piatti poveri, alle volte il quinto quarto è invece associato al massimo della raffinatezza. Fegato alla veneziana a parte, è il caso soprattutto del fois gras. L’uso di ingrassare l’oca con i fichi è una eredità della gastronomia romana, per cui era talmente un must che dalla ricetta dello iecur ficatum, “fegato ai fichi”: è derivati il nome del fegato nelle lingue neo-latine. Non da iecur, ma da ficatum. Per preoccupazioni animaliste la preparazione tradizionale del fois gras è stata ora vietata in molti paesi. Anche in Italia, dal 2007.

      

Più in generale, senza essere oggetto di veri e propri tabù religiosi, il “quinto quarto” è spesso sdegnato. A volte per la sua deperibilità è stato appunto associato a problemi sanitari: anche soggetto a divieti Ue al tempo della mucca pazza. A volte è stigmatizzato come cibo da poveri. A volte fa semplicemente impressione perché ricorda troppo l’anatomia della bestia uccisa. In tempi di crescenti mode vegetariane o addirittura vegane, dunque, il quinto quarto avrebbe dovuto essere in ribasso.

    

   

Invece, il nuovo paniere Istat ci dà ora la sorpresa. Il fatto che stavolta non ci siano stati voci tolte ma solo aggiunte ci dice comunque che il lockdown e la pandemia hanno accresciuto i bisogni, più che sostituirli. Alcune di queste new entry sono evidentemente legate all’emergenza sanitaria in modo diretto. Per esempio: mascherine chirurgiche, mascherine FFP2, gel igienizzante per le mani. Altre ne sono un risultato indiretto. Scarpe da ginnastica e scarpe da trekking, spiega l’Istat, hanno venduto di più a causa dei vincoli introdotti nello svolgimento delle attività sportive in ambienti chiusi. Altre ancora riguardano evoluzioni del costume già in corso: integratori alimentari, casco per veicoli a due ruote, dispositivo anti abbandono, bottiglia termica. Ma alcune di queste evoluzioni sono state accelerate dal Covid, ad esempio sul sorpasso delle energie rinnovabili rispetto a quelle di origine fossile: la ricarica elettrica per auto, il monopattino elettrico sharing. O con lo smart working: il servizio di posta elettronica certificata.

     

È una conferma la macchina impastatrice per fare il pane in casa. Si sapeva della moda affermatasi durante il lockdown: un po’ imposta all’inizio dalla chiusura dei negozi e dall’obbligo di stare in casa; ma poi divenuta tendenza e, secondo molte ricerche, anche un modo per sfogare tensioni e frustrazioni. Questo ritorno alle frattaglie, invece, è un po’ una sorpresa. Effetto del ridotto potere di acquisto? Simbolo di un bisogno inconscio di introspezione? Oppure più semplicemente è, come il pane fatto in casa, un segnale di autarchia? Tornerà anche l’orbace, nel prossimo paniere?

 

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