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Cibo e pandemia, qualcosa è cambiato

Edoardo D'Elia

Chi ha avuto ripercussioni economiche perderà progressivamente la possibilità di fare una spesa di qualità. Gyorgy Scrinis, ideatore del nutrizionismo, ci spiega come il lockdown ha modificato le nostre abitudini a tavola 
 

Nell’underground disincantato dei meme si dice che superati i mille contagi al giorno è ora di tornare a procurarsi il lievito madre. Almeno in Italia — anche se la moda della panificazione, per quanto suoni mediterranea, è in buona parte un effetto della moda americana (californiana) del baking — almeno in Italia, si diceva, l’esperienza comune della quarantena è stata cucinare, fotografare e mangiare. Pani rustici dalle strane farine e pizze ad alta idratazione che promettono alveolature degne di un frattale hanno tenuto banco e forse continueranno a tenerlo. Il cibo è l’eterno perno dell’esistenza: dai cacciatori-raccoglitori, che erano massimamente liberi di muoversi ma completamente impegnati a procacciarsi da mangiare, a noi mangiatori-consumatori in quarantena, costretti in casa e completamente impegnati ad assemblare manicaretti, non c’è modo di superare o evitare il discorso. E non sarebbe un problema, non sarebbe altro che un bel modo di far passare il tempo, se quel discorso non si riducesse troppo spesso a presunte verità salvifiche, a prese di posizione per cui si è pronti a immolarsi e a ritorni improbabili a misconosciute (e mal conosciute) tradizioni. Mal conosciute perché se sentite qualcuno dire che ha fatto il pane come lo si faceva un tempo, in casa, tutte le mattine, state pronti a rispondergli che nessuno, un tempo, aveva il forno in casa e che nessuno, in nessun tempo, ha mai avuto voglia di fare il pane tutti i giorni, a meno che non lo pagassero o non fosse il membro meno rilevante di una famiglia che non poteva permettersi di comprarlo. Certo, sapere come è fatto il pane, che forma ha una melanzana o come ci si sente a sedersi a tavola magari tentando anche di abbozzare una qualche conversazione, sono tutte cose utili. Ma in che modo siano utili, precisamente, non è mai stato del tutto chiaro. L’abusata frase di Feuerbach “Dimmi cosa mangi e ti dirò chi sei” suona bene, ma funziona solo se uno ha il talento e l’intuizione di Feuerbach. Il punto, per farla breve, è che prendersi cura di sé, col cibo o con qualsiasi altro mezzo, è una cosa che vogliono fare tutti, ma che quasi nessuno ha mai capito davvero come si fa, se non in termini troppo semplificati; che sia la nonna che era bravissima a cucinare o la scienza alimentare che prescrive non più cibi, ma micronutrienti.

 

Probabilmente la teoria che tiene di più, sia per lucidità di pensiero che per utilità di applicazione, è quella di Gyorgy Scrinis, professore di Food Politics and Policy all’Università di Melbourne e primo ideatore del termine “nutrizionismo” (si veda il suo libro, che ha fatto scuola, “Nutritionism. Science and Politics of Dietary Advice”, Columbia University Press, 2013, non ancora tradotto in italiano). Pubblica regolarmente su riviste accademiche articoli sull’industria, la politica e il consumo del cibo, ed è forse la persona migliore per spiegarci se questa quarantena è servita a qualcosa o è stata, per chi ha potuto, solo una lunga sessione di foodporn. “La pandemia — ha detto Scrinis al Foglio — ha messo in luce molti problemi e vulnerabilità nel nostro sistema alimentare. La quarantena ha in effetti costretto la maggior parte delle persone a cucinare di più e a contare di meno sui cibi pronti e industriali, e questo, auspicabilmente, potrebbe portare ad adottare diete più salutari”. Dobbiamo contare sulla forza dell’abitudine, ma allora forse la quarantena è durata troppo poco. E soprattutto ha fatto anche danni piuttosto concreti. “Molte persone potranno forse ripensare il loro rapporto col cibo — continua Scrinis — e questa sarebbe una buona cosa. Ma tutti coloro che hanno avuto ripercussioni economiche perderanno progressivamente la possibilità di acquistare cibo di qualità. E’ difficile dire che cosa succederà nel lungo periodo. Ma un aspetto del sistema alimentare che deve sicuramente cambiare, e la pandemia lo ha confermato chiaramente, è l’allevamento intensivo, dato che questo tipo di produzione contribuisce alla diffusione di malattie zoonotiche ed epidemie”. Forse cucinare molto ci ha fatto riscoprire per qualche settimana il gusto di sapere cosa ingurgitiamo, ma i problemi legati all’industria e al consumo di cibo rimangono invariati e si riducono sempre, inevitabilmente, al potere d’acquisto. Il sillogismo economico della cattiva alimentazione è questo: se non ho soldi, compro cibo che costa poco; il cibo che costa poco è di scarsa qualità e fa male; se non ho soldi mangio cibo che fa male.

 

L’idea di Scrinis, ridotta all’osso, è molto chiara: sull’etichetta di un prodotto alimentare non dovrebbero essere indicati i valori nutrizionali (carboidrati, proteine, vitamine, grassi, ecc.) ma solo quante alterazioni industriali ha subìto quel prodotto, cioè che distanza c’è tra la materia prima che si trova in natura e il cibo che abbiamo in mano. Non serve altro. Per questo demonizza i cibi ultra-processati e l’ideologia del nutrizionismo. Può sembrare troppo facile ma, se si segue il suo ragionamento, il criterio che propone è piuttosto solido. “Il nutrizionismo — continua Scrinis — è quando ci concentriamo troppo su quali sono i valori nutrizionali del cibo, ignorandone tutti gli altri aspetti. Questo ci porta a non far caso ai modi in cui quel cibo è stato lavorato a livello industriale. L’industria alimentare è stata capace di mettere a reddito questo nostro interesse per i singoli nutrienti, aggiungendone qualche qualche altro che consideriamo positivo a cibi industriali composti di ingredienti poveri e di scarsa qualità”. Come il packaging e il sapore, così i nutrienti vengono aggiunti artificialmente per convincerci che il nostro è un buon acquisto. Qui però è d’obbligo una tara: Scrinis è australiano e concentra i suoi studi sul consumo e l’industria alimentare dei mercati che fanno diretto riferimento agli usi e costumi americani; quindi per noi italiani può sembrare esotico parlare di pane con l’aggiunta di vitamina D o di biscotti proteici. La realtà è che questi prodotti si trovano anche da noi e in misura sempre maggiore. E di sicuro l’abitudine di controllare i “valori nutrizionali” è ormai consolidata. Si pensi al pane in cassetta, che si pregia di esser ricco in fibre ma scrive in carattere piccolissimo che ogni fetta è trattata con alcool etilico per rimanere morbida all’infinito; se la bruciate non siete cuochi scarsi, ma lettori pigri. Scrinis, sia chiaro, non ha alcuna intenzione luddista. Anzi, riconosce gli importantissimi traguardi della scienza della nutrizione, che ci ha permesso di capire gli effetti del cibo e delle sue componenti sulla salute e di scoprire le cause di alcune malattie che derivano proprio dalla mancanza di specifici nutrienti. Viviamo di più e meglio anche grazie a questa scienza. Ma la complessità dell’interazione tra il cibo, i suoi componenti e i nostri corpi, ognuno diverso dall’altro, che lo metabolizzano, non è riducibile a scienza esatta. Non è insomma quantificabile. Ma allora qual è la dieta migliore?

Chi ha popolarizzato con grande profitto le tesi di Scrinis per poi però portarle fuori strada è Michael Pollan, famoso saggista americano che, prima del suo ultimo libro sulla cultura lisergica, ha scritto tre saggi sul cibo (tutti pubblicati da Adelphi) e una serie Netflix in cui mostra eccessivo stupore ogni volta che porta a termine una ricetta. Il problema di Pollan è che dopo avere giustamente condannato il cibo industriale e portato alla ribalta popolare la complessità del rapporto tra l’uomo e ciò che mangia, si è lasciato prendere la mano e ha voluto rispondere a quella domanda suggerendo, in buona sostanza, che la dieta migliore è quella della nonna. E’ suo il precetto, che ha avuto una certa fortuna, “Mangia solo cose che tua nonna riconoscerebbe come cibo”. Basti dire, per mostrare la fragilità di Pollan, che una nonna italiana media non riconoscerebbe come cibo metà delle cose che mangiava la nonna di Pollan. “C’è molta saggezza nelle diete tradizionali — dice Scrinis — e non ce n’è una migliore di un’altra. Ma tutte le diete di tipo tradizionale si basano su cibi con un livello minimo di lavorazione, il che è sempre, in generale, la base di una dieta salutare. Ci mettiamo nei guai, invece, quando ci convinciamo che esiste una dieta ottimale e ci ossessioniamo con certi nutrienti, certi cibi o certe regole alimentari”. Il contesto del cibo non è riducibile a ricetta: le variabili sociali, economiche, psicologiche, emotive, climatiche e geografiche dell’alimentazione sono pressoché impossibili da scomporre e comprendere a fondo. Se non, forse, dopo una lunga vita di attenzioni, sensibilità e fortuna.

 

Per quanto quasi tutti, molti anche mossi da buone intenzioni terapeutiche o egualitarie, cerchino disperatamente di trattare l’uomo come un essere quantificabile e perciò riducibile a ricette (del ragù o della felicità), l’uomo sempre sfuggirà. Cercare la soluzione più facile è come inventare la margarina: invece di smettere o limitare l’uso del burro (spoiler: non fa male, ma il burro dannoso è un mito e i miti non devono essere veri, solo edificanti), si trova un surrogato artificiale che ne imita il colore, la consistenza e la funzione, ma non il gusto. Risultato: smettiamo comunque di mangiare il burro e in più mangiamo una cosa che non ci piace. “La margarina – dice Scrinis, che ne ha fatto uno dei simboli della sua crociata – è in realtà un cibo di scarsissima qualità per via di tutta la lavorazione che ha subìto e degli additivi che contiene. Eppure a partire dagli anni ’60 gli esperti della nutrizione ci hanno convinti che è più salutare del burro”. Non si parla più di margarina da anni, la scienza nutrizionista è diventata più sofisticata e le battaglie degli attivisti hanno cambiato obiettivi. Ma l’errore mentale sembra rimasto invariato: non voglio mangiare carne e uova ma voglio comunque mangiare i tortellini, e allora arrivano i tortellini vegani (in barba alla logica oltre che al gusto). Sia messa agli atti una testimonianza oculare: a cena, dopo un lungo pomeriggio di dibattiti accademici, Scrinis, tutto felice, ha ordinato tigelle e crescentine. Per poi dire che i salumi però non li avrebbe mangiati, perché è vegetariano. Onore a lui, che almeno non ha ordinato “vresaola” (bresaola vegana; sì, esiste) ma si è accontentato di squacquerone, pecorino dolce, giardiniera e vari altri sottoli. Ancor più onore a noi, suoi commensali, che davanti al professore in sollucchero, abbiamo preferito non specificare che le crescentine sono fritte nello strutto. La linea che separa la dieta alla greca (non Feta ma filosofia antica), quella del benessere dell’equilibrio e della felicità, dalla dieta medica, quella che il nostro medico ci impone per non morire, è molto sottile. Ma la scienza medica non può diventare un alibi per il nostro pigro desiderio di semplificare tutto. “La relazione fra cibo, salute e malattia è molto complessa — continua Scrinis — troppo spesso gli scienziati esagerano la loro capacità di comprendere queste questioni con precisione, e presentano spiegazioni troppo semplificate. Se ci sono soluzioni semplici a tutte le forme di malnutrizione, consistono nel garantire alle persone l’accesso a una buona varietà di cibi. Quando questo accade non abbiamo più bisogno di preoccuparci di carenze o eccessi di uno specifico nutriente”. Nell’introduzione al suo primo libro (“Il ventre dei filosofi. Critica della ragion dietetica”, Grasset, 1989), Michel Onfray, poi diventato uno dei filosofi più popolari e iperproduttivi di Francia, racconta di quando a 28 anni, contro ogni statistica, finì in ospedale per un infarto. L’infermiera si premurava di ricordargli ogni giorno che, una volta uscito, avrebbe dovuto limitare il vino e i grassi. Lui rispondeva che preferiva morire anziché vivere mangiando margarina. L’infermiera, piena di buone intenzioni ma piuttosto priva di retorica, lo rimbrottò dicendo che in fin dei conti la margarina e il burro sono la stessa cosa. E allora, se sono la stessa cosa, concluse Onfray, tanto vale mangiare il burro. “Sono d’accordo con lui – dice Scrinis – anch’io preferisco di gran lunga il burro”.

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