(foto Ansa)

Diffidare sempre dell'aggettivo “artigianale”. Meglio parlare di prodotti contadini

Camillo Langone e Corrado Beldì

Prosegue il viaggio enologico, tra le gerle di Castelsardo e i misteri della Liguria

Corrado, io sono sempre in Puglia a innervosirmi, tu sempre in Sardegna a deliziarti? Qui mi accusano di fare cattiva pubblicità alla regione perché ho scritto che il ristorante Acmet Pascià di Otranto equivale a un ipotetico ristorante Adolf Hitler o Herbert Kappler nel ghetto di Roma. Tu invece in quell’isola ti starai facendo molti amici: non hai che elogi per bottiglie, ristoranti, paesaggi, tradizioni…

 

Camillo, hai proprio ragione, ieri ho visitato Castelsardo, dove ancora le donne intrecciano raffia e fieno marino per fare corbule, stuoie, bisacce, fusi, crivelli, setacci, nasse, cesti, fiscelle, corde, scope, canestri e vassoi, faccio fatica a scriverli tutti, figurati quanta pazienza ci vuole a realizzarli a mano. Nell’ultima stanza c’era una magnifica gerla che mi ha fatto venire una gran voglia, strano a dirsi, d’uva e di vino, desideri che ho presto soddisfatto ai piedi del castello grazie a una bottiglia di Tuvaoes della Azienda vinicola Cherchi, perfetto per la rosticciata di calamari con basilico, pomodori secchi e scorza di limone e soprattutto per brindare a tutte quelle mani che intrecciano, tagliano, raccolgono, pigiano, attendono e infine stappano il risultato di tanta fatica per farci godere delle inimitabili delizie del vino.

Forse un industriale come te non dovrebbe essere così filo-artigianale, o forse sì, è una forma di compensazione… A me l’aggettivo “artigianale” suona retorico e innervosisce più della Puglia, specie quando viene pronunciato con due G come fanno a Roma: la birra artiggianale... E poi dove finisce l’artigianato e dove comincia l’industria? A 100 mila bottiglie? 50 mila? 20 mila? Un vino che non usurpa l’aggettivo è senz’altro il Martina di Togni Rebaioli, rosa prodotto in Val Camonica con uva Erbanno che è sinonimo, quando me l’hanno detto non ci potevo credere, di Lambrusco Maestri. Ne fanno solo 700 bottiglie: forse più che artigianale bisognerebbe dirlo famigliare, casalingo, stracontadino…

Non so cosa bevesse Fabrizio De André ma immagino fossero proprio vini del contadino, prima ancora del bio e del naturale. Per arrivare all’Agnata ci si deve inerpicare su una strada così stretta e curva che a forza di stringere il volante i polsi quasi mi facevano male, alla fine c’è un lago e poi un vialetto che porta alla casa e non saprei dirti se l’edificio è bello o brutto perché la vite americana lo ricopre da cima a fondo, persino i balconi e l’antenna della televisione e un giardino dove c’era Daniele Silvestri che cantava canzoni al pianoforte e noi sdraiati ad ascoltarlo in mezzo a un grande prato. Alla fine abbiamo stappato una bottiglia di cannonau riserva Franziska, come scegliere un altro vino, e con “la faccia al vento, la gola al vino” lo abbiamo bevuto prima che facesse notte.

Io invece lo so, o almeno ho un indizio, il verso di “Crêuza de mä” in cui De André canta “frittûa de pigneu, giancu de Purtufin”. Il bianco di Portofino una volta l’ho bevuto, non ne serbo particolare ricordo. E’ il problema del vino ligure: il territorio appare vocatissimo, il clima è perfetto, le vigne sono spettacolari, ma difficilmente rammento una bottiglia. La montagna che partorisce il topolino… A deludermi di più sono per l’appunto i bianchi, che pure in una regione marittima dovrebbero primeggiare. Gli unici liguri che ho voglia di riprovare sono i Rossese di Dolceacqua e penso a Ka Manciné e a Maccario Dringenberg che guarda caso non vengono prodotti sulla costa ma quasi in montagna, laggiù nel misterioso Ponente Ligure…

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