La mattanza in Sicilia, in un'acquaforte del 1782 di Jean-Pierre Houël

Povero tonno

Maurizio Stefanini

Un pesce nobile, un’industria che è nata in Italia. La crisi in America. Là dove divoravano le scatolette, adesso non ne vogliono più sapere

La globalizzazione appiattisce le differenze gastronomiche? Non è detto, ci suggerisce il tonno in scatola. “Il problema del tonno: un sacco di millennials neanche possiedono un apriscatole. StarKist, Bumble Bee Chicken of the Sea devono far fronte al crollo del mercato mentre si affermano alternative più fresche”, ha titolato il Wall Street Journal il 2 dicembre. Con in più la notazione generazionale, conferma lo stesso trend già fotografato il 18 agosto del 2014 dal Washington Post: “Come l’America si è disamorata del tonno in scatola”.

 

“Il Parlamento lo apriamo come una scatola di tonno”, disse Beppe Grillo nel 2013, al momento di depositare le liste dei Cinque stelle

Da noi, invece, il tonno in scatola resta un’icona nazionale. “Noi il Parlamento lo apriamo come una scatola di tonno”, disse Beppe Grillo l’11 gennaio del 2013, al momento di depositare al Viminale le liste dei Cinque stelle. Il tonno in scatola come simbolo di rivoluzione da parte del grande profeta dell’antipolitica. “Tutti sanno che mangio pasta pasta / Tutti tutti / Tutti sanno che mangio pasta / Con tonnoh / Con tonnoh / Con tonnoh…”, canta Bello Figo, alias Paul Yeboah: il tonno come simbolo di integrazione da parte di un rapper nato in Ghana nel 1992 e in Italia dal 2004, che è riuscito a far arrabbiare sia i buonisti filo immigrati che i cattivisti anti immigrati per la sua provocatoria “Non pago affitto”. Vogliamo ricordare che il 4 novembre si sono celebrati i 100 anni della vittoria in una Grande guerra in cui i nostri nonni e bisnonni tennero i fronti del Piave e dell’Isonzo sostenuti da quella razione speciale di “galletta e scatoletta”, in cui soprattutto verso la fine era il tonno a riempire il contenitore di 220 grammi, piuttosto che la carne? Ben 173 milioni di scatolette furono prodotte tra il 1915 e il 1918 dagli stabilimenti militari di Casaralta e Scanzano, mentre altri 62 milioni furono forniti dall’industria privata. Ne avanzarono talmente tante che a fine conflitto l’ulteriore produzione fu proibita fino a fine smaltimento, e fu proprio per la gran quantità finita alle famiglie civili che lo scatolame da specialità della naja si diffuse nella cucina di tutti i giorni. Un secolo dopo, i discendenti di quei soldati ancora hanno la mitica scatoletta come opzione di emergenza preferita. Un’inchiesta sui pasti degli studenti italiani di Erasmus indica che anche tra di loro la pasta col tonno è l’opzione numero uno, in una top ten che continua con pizza surgelata, cous cous o riso in bianco, prodotti sottovuoto o altri cibi in scatola, cibo locale “post sbronza”, insalate, latte con biscotti o cereali, “non ci penso quindi non ho fame”, kebab e minestre liofilizzate. Una sorprendente mescolanza in cui tradizione e innovazione, identità e cosmopolitismo si fondono all’insegna del pragmatismo.

 

D’altra parte, è in Italia che il tonno in scatola è nato. Il Thunnus, genere in cui sono comprese ben otto specie, è pescato fin dalla Preistoria, come dimostrano alcuni graffiti di grotte vicino a Genova e nelle Egadi. A Timor sono stati ritrovati resti di banchetti a base di tonno risalenti addirittura a 42.000 anni fa. Antichissima deve essere anche la tonnara, con i pesci attirati mediante un sistema di reti in uno spazio circoscritto di mare, dove poi vengono massacrati a colpi di fiòcina. Omero la paragona alla sorte delle navi di Ulisse nell’agguato dei Lestrigoni; Eschilo alla trappola in cui cadono le navi persiane a Salamina. “E gli altri brandivano i remi spezzati, i rottami di legno, e continuavano a colpirci, a massacrarci – come dei tonni, una retata di pesci – a farci a pezzi la spina dorsale”, racconta il messaggero al Gran Re. Aristofane descrive una vedetta appostata sul rilievo costiero più alto per segnalare l’arrivo dei tonni, poi spinti dalle correnti marine all’interno di un groviglio di reti. Strabone riferisce che i fenici si spingevano oltre le Colonne d’Ercole a pescare tonni che erano poi lavorati a Cadice, ed effigiati sulle loro monete. Apicio nel primo libro di cucina della Storia ci dà una ricetta di tonno brasato, oltre a spiegarci come il tonno dava una qualità superiore di garum: quella salsa di pesce che i Romani utilizzavano dappertutto un po’ come noi i dadi. L’industria del tonno in Sicilia la organizzarono in particolare gli arabi, e sono infatti di origine araba sia la “cialoma”, il canto tradizionale utilizzato per ritmare il lavoro nelle tonnare; sia il nome di quel “rais” che dirige la “mattanza”, e che significa “capo” in arabo.

 

Una leggenda abbastanza splatter racconta che san Nicola, proprio il prototipo di Babbo Natale, una volta in un’osteria si vide servire un piatto di preteso tonno di cui si accorse che in realtà era carne umana. Andò alle anfore da dove era stata tratta, le benedisse, e tre bambini tagliati a pezzi ne schizzarono fuori riprendendo vita. Oltre a farci apprezzare l’importanza dei Nas e a farci diffidare di tutte le bubbole sul “cibo sano di una volta”, la storia ci informa di come già i Romani mangiassero tonno conservato. Tagliato e lavato con acqua di mare, era messo sotto sale, ma non è che durasse più di tanto. A Siviglia nel XV secolo iniziano a usare l’olio: ventresca di tonno rosso, anch’essa sbollentata in acqua di mare e ben asciugata. Ribattezzato “tonina”, il prodotto appare nel porto di Genova attorno al 1725, e con l’annessione della Liguria al Piemonte gli imprenditori genovesi tentarono una prima sinergia tra l’olio della loro terra e il prodotto delle tonnare sarde, a uso dei consumatori piemontesi. Ma l’affare si rivelò poco remunerativo, e il business del tonno sott’olio in barili in breve scompare.

  

Nel frattempo, nel 1810 il cuoco francese Nicolas Appert dopo alcuni anni di esperimenti ha pubblicato un libro che si intitola “Arte di conservare per molti anni tutte le sostanze animali e vegetali”, che ha vinto un premio di 12.000 franchi messo in palio dall’Ufficio consultivo delle arti e manifatture. L’impulso è venuto da Napoleone, che già pensa agli approvvigionamenti per la Grande Armata destinata alla Russia. Il sistema è subito copiato dagli inglesi John Hall e Bryan Dinkin, che però il cibo cotto a bagnomaria non lo mettono in fragili flaconi di vetro, ma in più resistenti barattoli di latta stagnata. E sarà Wellington, vincitore di Napoleone a Waterloo, il primo grande estimatore di questo cibo in lattina.

 

Nel 2017 nel nostro paese ha generato un giro d’affari da 1,3 miliardi di euro. E’ nella dispensa di 94 italiani su cento

Sono appunto in lamierino inglese ma marcate e sigillate a Genova le prime scatole di tonno sott’olio che appaiono nel 1868. Ma gli industriali genovesi hanno il problema di doversi rifornire lontano, in tonnare spagnole, portoghesi e tunisine. Dieci anni dopo è invece il siciliano Ignazio Florio che dopo aver acquistato l’isola di Favignana costruisce vicino alla locale tonnara un grande stabilimento per l’inscatolamento. Droghieri di origine calabrese, i Florio erano decollati commerciando marsala, ma sarà appunto col tonno che acquisteranno la ricchezza grazie a cui Ignazio Junior diventerà un famoso mecenate, dando anche il nome della famiglia alla famosa corsa automobilistica Targa Florio. Nello stabilimento, oggi trasformato in Museo del tonno, il pesce tagliato a pezzi veniva cotto in 24 grandi caldaie, ancor oggi visibili, e poi posto ad asciugare. In un altro ampio locale si effettuava il confezionamento sotto sale nelle latte. Oltre mille dipendenti ci lavoravano, in un modello di catena di montaggio alimentare degno delle famose industrie per l’inscatolamento della carne di Chicago. All’Esposizione universale del 1891-92 la Florio presentò anche innovative scatolette di latta con apertura a chiave. Insomma, nella disputa su chi abbia inventato il tonno sott’olio, forse i genovesi hanno ragione a rivendicare una primogenitura tecnica. Ma spetta ai siciliani Florio l’aver dato alla scatoletta di tonno l’aspetto che ha ancora oggi, e che ne fa parte della nostra identità.

 

A 42 miliardi di dollari ammonta l’apporto all’economia mondiale della pesca del tonno, praticata in oltre 80 Paesi. In Italia il solo tonno in scatola ha avuto nel 2017 un giro di affari da 1,3 miliardi di euro, con una produzione nazionale di 75.800 tonnellate e un consumo di 155.000 tonnellate: un incremento del 3 per cento rispetto al 2016, pari a 2,5 kg pro capite. Il tonno compare nella dispensa di 94 italiani su 100, e 43 italiani su 100 lo mangiano almeno una volta a settimana. Del tonno come del maiale non si butta niente, e se le scatolette standard si fanno soprattutto col dorso, non mancano quelle speciali a base di ventresca e tarantello: la pancia e la parte di mezzo. Ma la parte più adatta a essere consumata fresca alla piastra è il filetto, per l’arrosto è consigliata la codella; dalle uova delle femmine si ricava la bottarga; dallo sperma dei maschi il lattume; cuore e polmoni si mangiano secchi; le guance oltre che nel sushi vanno bene crude in insalata; mosciame, ficazza e budello rappresentano un equivalente ittico di prosciutto, salame e salsiccia; e anche con gli scarti ricchi di sangue e messi sott’olio si fa la buzzonaglia.

 

Terminata la Grande guerra, per la gran quantità finita alle famiglie lo scatolame da specialità della naja si diffuse nella cucina di tutti i giorni

“Ma che ore sono? / Mezzogiorno e mezzo / Quando ero a scuola / Pensavo solo pasta / Sono in cucina / Sembro uno chef / Con tonnoh”, canta Bello Figo. “Posso spender diecimila euro per il tonnoh / Mi stanno cercando per rompermi il collo”. “Il tonno in scatola è scelto soprattutto dai giovani o tra i meno esperti in cucina per la sua praticità e velocità”, conferma l’Associazione nazionale dei conservieri ittici e delle tonnare. “L’insalata con il tonno o la pasta al tonno in scatola sono solo due tra le innumerevoli varianti di consumo di questo prodotto”.

 

Le prime scatole di tonno sott’olio nel 1868, a Genova. Ma spetta ai siciliani Florio l’aver dato loro l’aspetto che hanno ancora oggi

Negli Stati Uniti, invece, i loro coetanei non lo vogliono più. E, appunto, già nel 2014 il Washington Post osservava come, dopo essere stato un caposaldo anche della dieta degli americani, per il tonno fossero arrivati “tempi difficili”, con un 30 per cento in meno di consumo pro capite dall’inizio del nuovo millennio. Potremmo dunque parlare di un “secolo del tonno”, perché secondo quanto ha ricostruito lo storico Andrew Smith in effetti “nessuno aveva mai mangiato tonno in America prima del 1900”, e anche di pesce in generale se ne prendeva poco. Paese continentale e per di più protestante, quindi non soggetto agli obblighi cattolici su Venerdì e Quaresima, gli Stati Uniti nel 1910 avevano un consumo pro capite di 60 kg di carne bovina all’anno, 60 di carne suina, 15 di pollo e appena 7 kg di pesce. Quasi tutto fresco, e quasi tutto salmone. Dice ancora Smith che il tonno “era considerato un pesce spazzatura”, e quello in scatola arrivò solo nel 1904, in seguito a una crisi nella pesca di sardine. Ma proprio il processo di inscatolamento permise di confezionare un prodotto meno grasso, che fu presentato come un “pollo di mare”. “Chicken of the Sea”, si chiama in effetti una delle tre principali sigle del tonno in scatola made in Usa, nata nel 1914. Dopo il 1930 il tonno in scatola decollò, nel 1950 superò il salmone come pesce più consumato, e fino al 2000 restò negli Usa come in Italia il pesce più popolare, consumato dall’85 per cento delle famiglie. Certo, con la differenza che mentre da noi la destinazione preferita era la pasta, negli States erano i panini. E anche la consistenza del prodotto era diversa: tranci da noi, cose più sminuzzate da loro.

 

Ma poi contro il tonno si è scatenata la polemica ecologista e quella salutista, accusando l’industria di sterminare i delfini e di commercializzare prodotti intossicato dal mercurio. E si affermava la moda per i cibi freschi, e contro lo scatolame. Anche da noi queste polemiche sono arrivate, ma il tonno era tanto icona che non ne ha sofferto. Al massimo, è aumentata la pubblicità che parla di prodotti “sostenibili”. Nel 1990 gli americani mangiavano un terzo di tutto il tonno mangiato al mondo, e tra la metà e i due terzi del tonno in scatola. Nel 2012 era sceso al 16 per cento dei consumi di pesce e frutti di mare degli Stati Uniti.

 

Quattro anni dopo non solo la crisi continua, con un consumo pro capite ulteriormente sceso da 2,3 a 2,1 libbre all’anno: ormai, sotto al chilo. Il Wall Street Journal ha fotografato un’intera generazione cresciuta senza tonno, per quanti forzi facciano le majors di rilanciarne la moda: ad esempio addizionandovi nuovi gusti, o presentandoli come spuntini salutari. Solo il 32 per cento dei consumatori tra i 18 e i 34 anni acquista infatti pesce in scatola, contro il 45 per cento degli ultra 55enni. Il Wall Street Journal osservava che l’industria del tonno sta un po’ ammortizzando il danno per il fatto che cessando di essere il tonno un prodotto di massa e diventando più un prodotto di nicchia può crescere nei prezzi. C’era però anche la speranza di farlo adottare nelle mense scolastiche. Abbandonato dalla Generazione Y, potrebbe così tornare nelle abitudini della Generazione Z. Nell’attesa, anche sul tonno si approfondisce un solco tra le due coste dell’Atlantico.

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