Un centro di confezionamento di avocado a Uruapanat, nello stato del Michoacan, in Messico (foto LaPresse)

L'avocado si difende

Maurizio Stefanini

Dal giardino del Corsaro Nero al paniere dell’Istat. Gli aztechi, gli anni da bere, i bar hipster: il lungo viaggio di un frutto

Centoventi anni esatti ci ha messo, per arrivare dal giardino del Corsaro Nero al paniere dell’Istat. Dalla vendetta contro il perfido Wan Guld, alla lotta contro l’inflazione! “Persea”, in realtà, lo chiamava Emilio Salgari. “Se la casa era graziosa, il giardino era pittoresco. Bellissimi viali formati da doppie file di banani, i quali colle loro grandi foglie dalla tinta verde cupo mantenevano là sotto una deliziosa frescura e già carichi di frutta lucenti e in forma di grappoli enormi, si estendevano in tutte le parti, dividendo il terreno in tante aiuole, dove crescevano i più splendidi fiori dei tropici. Qua e là, negli angoli, torreggiavano delle splendide ‘persea’ che producono delle frutta verdi, grosse come un limone e la cui polpa condita con ‘xéres’ e zucchero è buonissima; delle ‘passiflore’ che danno delle frutta squisite, grosse come uova di anitre e che contengono una sostanza gelatinosa di sapore gratissimo; delle graziose ‘cumarù’ dai fiori porporini esalanti un profumo delicatissimo, e dei cavoli palmisti già irti delle loro mandorle colossali, poiché raggiungono la lunghezza di sessanta e perfino ottanta centimetri”.

 

Il consumo in Italia, secondo dati Coop, negli ultimi 12 mesi è cresciuto del 78 per cento. La cena salata degli “Yuppies” a Cortina

Per la verità, Persea si chiama ancora: ad esempio, nella Wikipedia. Più precisamente, stiamo parlando della Persea americana: una delle 150 specie di quel genere Persea, che sta poi in quella più ampia famiglia delle lauracee di cui sono membri anche l’alloro dei poeti e dei fegatelli, la cannella, la canfora e il sassofrasso. Ma il nome finito sui giornali – al primo posto tra i nuovi prodotti inseriti nella lista sui cui viene misurata la variazione dei prezzi al consumo – è un altro: avocado! Primo, ovviamente, anche per ordine alfabetico: davanti a lavasciuga, mango, robot aspirapolvere e vini liquorosi; e al posto di canone Rai, lettore Mp4 e telefonia pubblica. Ma avocado primo anche come prodotto simbolo dei consumi di un ceto di giovani che negli anni Ottanta “da bere” venivano indicati come rampanti e yuppies, e che oggi sono invece definiti millennials o hipster. C’è qualche sfumatura nella definizione di queste categorie, ma non nella comune passione per un prodotto il cui consumo in Italia, secondo dati Coop, negli ultimi 12 mesi è cresciuto del 78 per cento.

 

La Giulietta di William Shakespeare e l’Adso di Umberto Eco – è vero – ci ricordano che l’essenza di una cosa resta tale anche se se ne cambia il nome e, nel tempo, il modo di consumarla. Prendiamo ad esempio quell’anno 1680 circa in cui la finzione su Emilio di Roccabruna è ambientata, anche se in realtà il romanzo è del 1898. La persea, allora, nelle taverne della Tortuga si prendeva con vino e zucchero. Dessert. Voliamo per i secoli, e planiamo sul 1986 del film “Yuppies. I giovani di successo”. E lì sono anche i 12 avocados che la “brasiliana” di Christian De Sica ha preso assieme a un filetto al prezzo di 7.000 lire l’uno a contribuire al micidiale conto finale da 1.700.000 lire in un ristorante di Cortina: certo, assieme ai tre litri di Cabernet del ’64 “a 20.000 a boccia” che si è “sparata” la “smortina” di Massimo Boldi; all’aragosta della ragazza di Ezio Greggio; alla grappa “invecchiata 52 anni”; alle 220.000 lire in fragole che fanno sbottare sul “fragole e sangue!”. Correttamente, il soggetto usato da Carlo Vanzina suggerisce che siano stati usati come contorno. L’idea dell’epoca, però, è l’avocado sia frutta. Frutta tropicale: un po’ come il mango, l’ananas o il kiwi, che infatti in quegli anni dilagano nelle tavole italiane. Il kiwi in realtà ha perso molto status, da quando si è scoperto che nelle ex Paludi Pontine cresceva meglio che in Nuova Zelanda e l’Italia ne è così diventata il primo produttore mondiale. Ma gli altri ancora fanno scena.

 

Nel 2016 il boom dell’avocado ha compensato per il Messico le conseguenze della crisi petrolifera nella bilancia dei pagamenti

In fondo, la percezione italiana è ancora quella: l’avocado è frutta. E hai voglia i bar hipster di Milano che lo danno con formaggio e pomodori, in sandwich o in insalata. O il locale di Melbourne che ha inventato un cappuccino da servire in un avocado svuotato. O quel primo Avocado Bar che è stato inaugurato a Roma al quartiere Monti, antesignano di una catena che ha l’ambizione di diffondersi in tutta Italia su un menu tutto a base di Persea Americana: dalla colazione (frullati e smothies) al budino.

 

Non c’è però solo la scuola di Giulietta e Adso. Arthur Rimbaud, al contrario, era dell’idea che le parole possono avere di per sé stesse un potere evocativo che concentra molti significati in significanti ristretti, e che questo potere evocativo si accresce quando la parola è rara, arcaica, esotica. “A nera, E bianca, I rossa, U verde, O blu: / vocali, / Dirò un giorno le vostre origini latenti: / A nero busto irsuto delle mosche lucenti / Che ronzano vicino a fetori crudeli, / Golfi bui; E, candori di vapori e di tende, / Lance di ghiacciai, bianchi re, brividi / d’umbelle; / I, sangue e sputi, porpore, riso di labbra / belle / Nella collera o nelle ebbrezze penitenti; / U, fremiti divini di verdi mari, cicli, / Pace di bestie al pascolo, pace di quelle / rughe / Che imprime alchìmia all’ampia fronte dello / studioso; / O, la superna Tromba piena di strani stridi, / Silenzi visitati dagli Angeli e dai Mondi: / - O, l’Omega, violetto raggio di quei Suoi / Occhi!”. E non è forse Emilio Salgari uno dei più grandi volgarizzatori della teoria rimbaudiana del letterato come veggente? Nessuno in Italia sapeva che cosa fossero un kriss, un praho, un babirussa quando lui li introdusse nei suoi romanzi. E neanche cosa fossero una persea, una passiflora, un cumarù o un cavolo palmista. Ma queste parole ignote descrivevano mondi sconosciuti proprio perché erano ignote.

 

Sì, 120 anni sono appunto passati, e dal giardino del Corsaro Nero un po’ tutta quella mercanzia è finita negli scaffali dei nostri supermercati. Reparto succhi di frutta, ad esempio. Prendente il tetrapak del Tropical Juice: sì, quello. Leggete gli ingredienti. Ecco la passiflora. Neanche lei si chiama più così: a volte la indicano come maracuja, nome tropicale. A volte come frutto della passione, dall’inglese “passion fruit”. No, no: le proprietà afrodisiache non c’entrano per niente. Passione nel senso di quella di Cristo: alcune parti della pianta assomigliano agli strumenti usati dai carnefici, e per questo generazioni di missionari le usarono per colpire l’immaginazione degli indigeni da evangelizzare. Viticci = la frusta. I tre stili = i chiodi. Gli stami = il martello. La raggiera corollina = la corona di spine. Girate un attimo, reparto profumeria o pasticceria. Se cercate bene trovate pure le fave di Tonka: le produce il cumarù, assieme a un legno molto pregiato. Tornate indietro verso gli alimentari, ecco, lì: lo scatolame. Li vedete quei cuori di palma? Buoni in insalata: sono il “cavolo palmista” di Salgari. Piatto del cavolo, ma di classe. Certo, riconoscendo quei prodotti in quest’altro contesto l’immaginario a essi associato un po’ sfuma, ma in fondo non troppo. La persea parlava alla nostra fantasia di duelli e assalti a vascelli, l’avocado ci evoca Opa e startup: ma pur sempre di lottare per la ricchezza si tratta! E non è che i pirati in Borsa manchino…

 

Per i botanici è un “fantasma dell’evoluzione”, che si è sviluppato nella sua forma attuale per attrarre la megafauna del Cenozoico

Ma la storia della persea americana, in realtà, è anche molto più antica dei 120 anni che ci ha messo per passare dai libri di Salgari ai bollettini dell’Istat e agli scaffali dei supermercati. Per i botanici, infatti, si tratta addirittura di un “fantasma dell’evoluzione”, che si è sviluppato nella sua forma attuale apposta per attrarre la megafauna del Cenozoico: bestioni come il megaterio, il tossodonte, il gliptodonte o il gonfoterio. Erano grandi mammiferi di taglia tra l’odierno elefante o ippopotamo, capaci di inghiottire un avocado intero con un solo morso, per poi espellere a fine digestione il massiccio seme centrale in abbondanza di concime. Proprio perchè doveva tener su masse di carne del genere, l’avocado è una bomba calorica: 160 calorie e 15 grammi di grassi per ogni 100 grammi di prodotto. E’ vero che si tratta di quel tipo di grassi che i nutrizionisti considerano “buoni”, stile l’olio di oliva. Ma, insomma, i 13 avocados della “brasiliana” di “Yuppies” sono una chiara iperbole. Malgrado l’abbondanza di calorie e lipidi buoni, però, 13.000 anni fa gran parte di questi esseri scomparve in massa e all’improvviso: quella grande estinzione del Pleistocene che in Sudamerica fece fuori l’83 per cento dei grandi animali, e di cui è oggi dato per assodato che fu causa scatenante la diffusione dell’essere umano. L’avocado però sopravvisse: assieme alla papaia, e a un altro pugno di piante. E anche qui è probabile che ci sia lo zampino della nostra specie.

 

In Messico è infatti coltivato almeno dal 5000 a. C., ed è dagli aztechi che gli europei lo conobbero. In nahuatl, la loro lingua, era chiamato “ahuácatl”, in cui -tl finale è semplicemente l’articolo posposto: come nella stessa parola “nahua-tl”, “lingua-la”, la lingua. Il sostantivo “ahuáca” significa invece “testicolo”: che ha una forma effettivamente simile all’avocado, e che secondo le credenze precolombiane era stimolato dalle sue pretese proprietà afrodisiache. “Ahuá qua” significa però anche “burro del bosco”, e “buona e simile al burro” è infatti descritta la polpa dell’avocado dal cronista spagnolo Gonzalo Fernández de Oviedo: in quel “Sommario della storia naturale delle Indie” che nel 1526 portò nelle lingue europee anche le parole ananas, amaca, tabacco e barbecue. Quindi non è stato il frutto a prendere il nome dalla parte anatomica ma il contrario: allo stesso modo in cui nella nostra lingua questa è per metafora assimilata a “una piccola testa” in linguaggio colto o a una “palla” in linguaggio volgare.

 

In Messico è coltivato almeno dal 5000 a. C. e là lo mettono con tutto: carne, pollo, pesce, frutti di mare, fagioli, formaggio

Da ahuácatl viene comunque lo spagnolo moderno aguacate, usato dal Messico alla Colombia. Ma dall’Ecuador in giù si dice “palta”: termine con cui gli Inca la definirono dal nome dell’etnia attraverso la quale l’avevano conosciuta. Un adattamento fonetico da ahuácatl dato dai Conquistadores è anche avocado, che però nello spagnolo è stato poi abbandonato per via dell’eccessiva somiglianza con la nota categoria professionale. Passò però in inglese, che non aveva problemi di confusione con “lawyer”. E di lì ad altre lingue europee come l’italiano, dove invece resta possibile qualche freddura tipo: “Sai che mangia un cannibale hipster in tribunale? Avvocato!”. Peraltro, in Inghilterra esiste anche la definizione di “alligator pear”: una “pera di alligatore” dovuta forse alla apparenza squamosa della superficie, o forse a una errata etimologia.

 

Il nahuatl, peraltro, si usa ancora: il censimento messicano del 2015 gli assegnava esattamente 1.725.620 parlanti. E andando ancora a spulciare nel suo vocabolario troviamo anche la parola “mollis”: salsa. “Salsa di avocado” si dice dunque “ahuácatl mollis”, che adattata in spagnolo diventa “guacamole”. E storicamente è il guacamole che sta all’avocado come la passata al pomodoro, il vino all’uva o l’olio all’oliva. Se volete una ricetta: 2 pomodori medi, una cipolla piccola, tre peperoncini, quattro avocados maturi, 2 limette, un mazzetto di coriandolo fresco, sale, pepe nero macinato al momento. Se non trovate le limette usate il limone; al posto del coriandolo va bene il prezzemolo. Si taglia a pezzi, limette o limone si spremono, si passa o frulla il tutto, si mette il coriandolo o prezzemolo tritato alla fine, e si serve su uno qualsiasi dei tanti prodotti che in Messico si ricavano dalla farina di mais: ideali i totopos, pezzettini croccanti di tortilla fritta, come pure i triangolini croccanti di mais già confezionati, i tortilla chips. Ovviamente, finisce anche sugli innumerevoli altri prodotti stretti parenti delle tortillas che si usano nel resto della regione: dalle arepas di Colombia e Venezuela alle sopaipillas cilene.

 

Ma in Messico lo mettono praticamente con tutto: carne, pollo, pesce, frutti di mare, fagioli, formaggio. I marinai che tra ’600 e ’700 bazzicavano per i Caraibi lo spalmavano semplicemente sulle gallette, stile burro. L’avocado si può poi fare in insalata, come minestra cremosa con crostini, nei sandwich. In Italia lo conosce solo chi ha bazzicato il Cono Sur, ma un caposaldo della panineria cilena è l’“Italiano”: così chiamato perché appunto la guarnizione in bianco della maionese, in rosso del pomodoro e in verde dell’avocado evoca la nostra bandiera. E anche quella del Messico patria del terzo elemento, sì. Ma trovare un cileno che potendo scegliere tra omaggiare l’Italia e omaggiare il Messico opti per la seconda soluzione in nome della solidarietà latino-americana è cosa altrettanto rara che trovare in Italia un tifoso della Lazio che in nome della solidarietà cittadina tifi la Roma contro un’altra squadra; o un torinista che tifi la Juventus; o un milanista che tifi l’Inter; o un genoano che tifi la Sampdoria. Dal Costa Rica viene poi l’avocado tagliato a metà e farcito al posto del nocciolo con un composto di maionese, olive, gamberetti e mascarpone. Dal Nicaragua una ricetta simile con gamberetti conditi. Dal Venezuela una variante del guacamole con olio di oliva e aceto di vino che si chiama guasacaca. Resta però il guacamole doc il grande ambasciatore dell’avocado: esportato negli Usa grazie a turisti, migranti e alla cucina Tex-Mex, e da lì rimbalzato nei ristoranti in stile Usa di tutto il mondo.

 

In Italia, per la verità, quelli che consumiamo sono soprattutto avocados provenienti da Sudafrica e Israele, ma anche da noi c’è chi è riuscito a trapiantarli. Da qualche parte al sud, e pare che crescano bene soprattutto sulle pendici vulcaniche dell’Etna. Ma il 28 per cento della produzione mondiale e la gran parte delle 400 varietà vengono sempre dal Messico, tuttora il primo esportatore. E poiché tra i nuovi ricchi di Cina e Russia l’avocado sta sfondando allo stesso modo che tra noi, la notizia economica è che nel 2016 è stato praticamente il boom dell’avocado a compensare per il Messico le conseguenze della crisi petrolifera nella bilancia dei pagamenti: 2,20 miliardi di dollari di attivo, contro un deficit petrolifero da 2,376 miliardi. Un milione di tonnellate di export su 1,8 milioni di produzione nazionale, al 70 per cento proveniente dal Michoacán, dove questo “oro verde”, come lo chiamano, genera almeno 100.000 posti di lavoro, tra diretti e indiretti.

 

Canada, Francia, El Salvador e Giappone sono i primi acquirenti di avocado messicano: dopo gli Stati Uniti, ovviamente. E se da noi a febbraio l’Istat ha deciso di mettere l’avocado nel paniere, negli Stati Uniti febbraio è un tradizionale tetto di consumo. Durante il Super Bowl, quando grazie ai tifosi che intingono tortilla chips nel guacamole l’export arriva alle 35.000 tonnellate.

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