(foto LaPresse) 

Il Conclave di Papa Francesco

I due terzi dei cardinali elettori sono di nomina bergogliana. Raggiunta la quota per l'elezione del Pontefice, ma ogni previsione troppo facile è azzardata

Matteo Matzuzzi

Francesco ha stravolto gli schemi al punto che i porporati non si conoscono tra loro. In un decennio sono stati aperti talmente tanti dossier che non si sa come gli elettori la pensino davvero sui problemi, grandi e piccoli, che riguardano la Chiesa. Un'analisi

Roma. Con l’ottantesimo compleanno del cardinale Crescenzio Sepe, lo scorso 2 giugno, Papa Francesco conquista la maggioranza dei due terzi del Conclave, che poi è quella che – norme alla mano – serve per essere eletti Pontefice. Da venerdì scorso, infatti, il 67 per cento dei porporati che, quando accadrà, si chiuderanno nella Cappella Sistina per eleggere il successore di Jorge Mario Bergoglio, sono stati da quest’ultimo creati: 81 su 121. Entro fine anno, poi, usciranno dal novero degli elettori altri sette cardinali (tre di creazione ratzingeriana, tre scelti da Francesco, uno da Giovanni Paolo II). Sbaglierebbe però chi, sulla base delle statistiche, tirasse conclusioni affrettate, chiudendo la partita ancor prima che questa inizi. In realtà, nonostante la truppa di nomina bergogliana sia numericamente ben consistente, rispondendo a precise scelte del Papa regnante, il Collegio appare eterogeneo e diviso. Francesco, in un decennio, ha rovesciato la prassi vigente che voleva un buon numero di porpore assegnate ai titolari delle sedi cosiddette “cardinalizie”, lasciando spesso fuori da uno dei club più esclusivi del mondo arcivescovi titolari di diocesi che hanno fatto la storia della Chiesa (Milano) o geograficamente estese e significative per un dato contesto sociale e culturale (Los Angeles). Niente da fare neanche per la Venezia che solo nell’ultimo secolo e mezzo ha dato ben tre Papi, di cui due fatti santi e uno beato. Francesco ha voluto rompere gli schemi, vedendo nell’accesso al Collegio cardinalizio sovente una lotta che tanto sa di arrampicata carrieristica, con presuli che venivano spostati da una diocesi all’altra fino a vestirsi di rosso. Già dal 2013, quindi, il cambiamento che in un decennio ha portato a lasciar fuori dalla Sistina l’arcivescovo di Milano – quanto a parrocchie, la diocesi più grande del mondo, con un rito proprio – e a farvi entrare il vescovo di Port Saint Louis (Mauritius) e di Tonga.

 

Ma immaginare un Conclave già deciso è del tutto fuorviante. Anche perché proprio la linea impressa da Francesco rende tutto fluido e impronosticabile. Cosa penserà dei viri probati il cardinale di Timor Est? Che idee si sarà fatto del Cammino sinodale tedesco l’eminentissimo di Papua Nuova Guinea? Nessuno lo sa, anche perché le occasioni di confrontarsi vis-à-vis a Roma sono state pochissime in questo decennio: due soli concistori, il primo con la lectio di Walter Kasper che fece da ouverture al Sinodo sulla famiglia (anno 2014) e il secondo lo scorso agosto, compresso tra le discussioni relative alla riforma della curia (già entrata in vigore). Le maggioranze nei conclavi non sono mai decise a tavolino e quando i pontefici tendono a delineare una rotta precisa del Collegio, di solito poi le cose vanno nel verso opposto: accadde nel 1914, quando Giacomo Della Chiesa fu eletto alla morte di Pio X (che aspettò sette anni prima di concedere la porpora a quello che sarebbe divenuto il suo successore), e accadde mezzo secolo dopo quando dopo Pio XII arrivò Giovanni XXIII che subito annunciò il Vaticano II. Un quadro con la minor forza del “blocco europeo” e con largo spazio alle periferie, può determinare due soluzioni: o l’elezione di un cardinale “noto” e internazionalmente impegnato, o una sorpresa frutto di un compromesso sottoscritto per evitare che il Conclave vada avanti per giorni e giorni senza trovare la maggioranza altissima dei due terzi, come non accade dall’Ottocento. Ipotesi, quest’ultima, che si può scartare. Proprio la scelta di rompere gli schemi tradizionali rende superate le classificazioni consuete dei cardinali in “conservatori” e “progressisti”. Il pontificato di Francesco ha avviato così tanti processi, aperto la strada a riforme e ribaltato orientamenti che si consideravano consolidati, che la mole di questioni che i cardinali si troveranno a dover discutere nelle congregazioni generali fa sì che l’individuazione di un “candidato” sarà tutt’altro che impresa facile. Con una guerra mondiale in corso, seppure “a pezzi”, poi, il quadro si presenta ancor più delicato. Il cardinale Julián Herranz, uno dei tre ai quali Benedetto XVI affidò l’inchiesta interna post Vatileaks, in un’intervista ad Abc ha avvertito che c’è il rischio concreto di “manipolazioni esterne” sul prossimo Conclave, con gruppi di pressione più o meno defilati pronti a entrare in campo cercando di influenzare, con pubblicazioni varie, le intenzioni degli elettori. La vulgata comune vede già Francesco II affacciarsi dalla finestra del Palazzo apostolico; narrazione corroborata appunto dal fatto che nel Collegio si vede sempre di più la mano di Bergoglio, il che è innegabile. Ma i problemi della Chiesa, nella società sempre più globalizzata, sono talmente diversi da una latitudine all’altra che non vi è nulla di più superficiale che immaginare successioni per diritto quasi dinastico, con l’identificazione di delfini da vestire di bianco. E’ molto più complicato. Ci sono le istanze della Chiesa americana (del nord e del sud), l’emergere dell’Africa e dell’Asia – dove, ad esempio, uno dei primi cardinali fatti da Francesco, Charles Maung Bo, si è dimostrato uno dei più tenaci avversari del regime comunista cinese – quindi l’Europa sempre più marginale. Un assaggio di quel che sarà il Conclave lo si potrà avere forse durante la fase conclusiva del Sinodo sulla sinodalità, quando si cercherà di far convergere in un unico documento che possa accontentare tutti le domande dei tedeschi con quelle delle chiese africane, e queste con quelle delle comunità dell’Amazzonia. Impresa improba e Francesco lo sa, tant’è che ha scelto di posticipare di un anno la fine dei lavori. Ma sarà anche l’occasione per un confronto serio su quel che attende la Chiesa nei decenni a venire.

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  • Matteo Matzuzzi
  • Friulsardo, è nato nel 1986. Laureato in politica internazionale e diplomazia a Padova con tesi su turchi e americani, è stato arbitro di calcio. Al Foglio dal 2011, si occupa di Chiesa, Papi, religioni e libri. Scrittore prediletto: Joseph Roth (ma va bene qualunque cosa relativa alla finis Austriae). È caporedattore dal 2020.