(foto LaPresse) 

"Pell all'inferno". I campioni della tolleranza non lo risparmiano neanche da morto

Matteo Matzuzzi

Manifestazione all'esterno della cattedrale di Sydney, dove si celebrava la messa in ricordo del cardinale morto lo scorso 10 gennaio. L'arcivescovo della città australiana: "È stato un leone della fede”

Per George Pell non c’è pace neanche da morto. Da settimane, varie sigle gravitanti attorno alla galassia lgbt promettevano di “lasciare un segno” prima, durante e dopo la messa da Requiem prevista nella cattedrale di Santa Maria, a Sydney, ieri mattina. La polizia locale ha cercato di scendere a patti con i manifestanti, anche perché si volevano evitare ulteriore clamore e, peggio, disordini. Era stata organizzato, da parte del gruppo Community Action for Rainbow Rights, un corteo che come slogan riportava il chiarissimo “Pell go to Hell”, “Pell all’Inferno”. Si ripromettevano, i promotori, di sfilare nel cuore di Sydney, arrivando fino alle porte della cattedrale, dove era stata prima allestita la camera ardente e poi celebrata la messa da parte dell’arcivescovo, Anthony Colin Fisher. Sui manifesti realizzati per l’evento e diffusi sui social, si spiegava che era necessario farsi sentire per “protestare contro il lutto per questo anti lgbt, misogino e responsabile di abusi”. Le forze dell’ordine, temendo tumulti, avevano sperato che il corteo fosse vietato, ma alla fine si è trovato un “compromesso”: niente sfilate giacobine ma manifestazione nel parco davanti alla cattedrale, posto a qualche centinaio di metri. La recinzione della chiesa madre cittadina è stata addobbata con nastri arcobaleno, che non hanno risparmiato neppure la statua della Madonna. Dopotutto, c’era poco da attendersi dalle autorità che da tempo avevano fatto sapere di non voler partecipare alla messa: non si sono visti né il sindaco né il governatore, tanto meno il governatore del Nuovo Galles, che pure è cattolico. Nelle scorse settimane, poi, c’è perfino chi aveva espresso dubbi sull’opportunità di seppellire Pell nella cripta della cattedrale, e pazienza se George Pell di Sydney è stato arcivescovo per tredici anni. 

 

Probabilmente lui se lo sarebbe immaginato, benché avesse confidato negli ultimi tempi di aver intravisto i primi segni di una sorta di “pacificazione” in Australia, tra la Chiesa cattolica e le varie associazioni che – chi più strumentalmente, chi meno – per anni hanno invocato catene e bavagli per preti e vescovi fedeli a Roma. Il fatto è che Pell non è scappato, anzi: ha scelto di sottoporsi alla gogna mediatica quando era evidente la sua totale estraneità ai fatti che gli venivano addebitati, con ricostruzioni su presunti abusi che non verrebbero prese in considerazione neppure per certi romanzacci estivi a zero virgola novantanove euro che mescolano santi, misteri, Vaticano, omicidi e sesso. Perfino osservatori locali ben lontani dal cattolicesimo, una volta letti gli atti erano inorriditi, non capacitandosi di come un processo fosse stato istruito su indizi e/o presunte prove così ridicole. A ogni modo, Pell si è fatto più di 400 giorni di carcere, spesso con il divieto di celebrare messa, misura che non parrebbe degna della democratica Australia, essendo tipica invece dei carcerieri cinesi. Galera in compagnia di breviario e tè Lipton alla pesca (come raccontato nei suoi Diari) prima dell’assoluzione all’unanimità decisa dall’Alta corte (già nel giudizio precedente uno dei tre giudici aveva espresso parecchie perplessità sull’impianto accusatorio). 
Pell, anche da morto, paga il suo attivismo in patria durato decenni contro ogni deriva mondana e ammiccante verso certe realtà liberal che di cattolico – e di cristiano – avevano ben poco. Non è questione di sfumature, ma di verità di fede. 

 

Non a caso, uno dei sopravvissuti agli abusi della diocesi di Ballarat, interpellato dalla tv locale ha ammesso che “tanti australiani tengono George Pell in alta considerazione, perché ha fatto cose buone ma dobbiamo essere in grado di parlare dell’eredità che ha lasciato”. E l’eredità è quella che non va giù ai suoi oppositori: ha rivoluzionato la Chiesa australiana, favorendo la nomina di nuovi vescovi  lontani da certe derive che in altri contesti  hanno portato all’encefalogramma quasi piatto di chiese un tempo  vive. Era ascoltato da Papi e confratelli, e anche per questo è diventato l’obiettivo  delle campagne di odio  che da almeno un decennio si vedono in Australia, con il coinvolgimento perfino delle autorità politiche, poco interessate all’evidenza della totale estraneità di Pell alle accuse menzognere che gli erano state mosse. Nella sua omelia, mentre gli applausi coprivano gli inviti della folla all’esterno a mandare il cardinale all’inferno, l’arcivescovo Fisher ha definito Pell “un leone della fede”, “un gigante che senza vergogna e con veemenza, coraggiosamente fino alla fine, ha proclamato il Vangelo”. Un uomo che “aveva anche un cuore grande, abbastanza forte da combattere per la fede e sopportare la persecuzione”.

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  • Matteo Matzuzzi
  • Friulsardo, è nato nel 1986. Laureato in politica internazionale e diplomazia a Padova con tesi su turchi e americani, è stato arbitro di calcio. Al Foglio dal 2011, si occupa di Chiesa, Papi, religioni e libri. Scrittore prediletto: Joseph Roth (ma va bene qualunque cosa relativa alla finis Austriae). È caporedattore dal 2020.