Il Papa fulmina Biden

Dopo Kabul, Washington e il Vaticano sono più lontani. Il problema non era solo Trump

Matteo Matzuzzi

Francesco diffida del mondo yankee e neanche il pio Biden fa eccezione. La presa di posizione dell'Osservatore Romano e le questioni aperte

Roma. S’illudeva chi pensava che bastasse sfrattare Donald Trump dalla Casa Bianca per riportare il sereno nei rapporti tra la Santa Sede e gli Stati Uniti. Il presidente che costruiva muri e che dunque “non può dirsi cristiano” non c’è più, eppure mai come ora appare evidente che il problema era – ed è – ben più profondo rispetto al profilo dell’uomo al comando. Lo scenario sarebbe favorevole: presidente è Joe Biden, uomo per bene, cattolico devoto e praticante, pragmatico, lontano dalla retorica trumpiana esibita con Bibbie sventolate al contrario e intese interessate con la galassia evangelica. Invece, benché a livello diplomatico si muova poco, la linea di faglia che separa Roma da Washington continua a essere ampia. Qualche segnale si era visto nei mesi scorsi, con la mancata tappa vaticana di Biden durante il tour europeo.  Se ne è avuta conferma nei giorni della debâcle afghana, con il crollo di Kabul e il ritorno al potere dei talebani. Se all’Angelus dell’Assunta il Papa si è unito “all’unanime preoccupazione per la situazione in Afghanistan”, chiedendo di pregare “il Dio della pace affinché cessi il frastuono delle armi e le soluzioni possano essere trovate al tavolo del dialogo”, l’Osservatore Romano è stato ben più diretto. 

 

Il “giornale di partito” – definizione di Francesco – ha scritto il 19 agosto in prima pagina che “stupisce che prima di decidere di abbandonare il paese non si sia immaginato un simile, prevedibile scenario e non si sia fatto nulla per evitarlo. E sarebbe ancora più grave se una tale decisione fosse stata presa pur essendo consapevoli delle drammatiche conseguenze. Ora non si può far altro che cercare di correre ai ripari. L’occidente, in particolare chi ha avuto un ruolo di responsabilità in Afghanistan, dovrebbe farsi carico di programmare in tempi brevissimi concrete azioni di sostegno e di accoglienza”. Il giorno successivo, sotto al titolo d’apertura “Il grido dell’Afghanistan”, si leggeva che mentre quel popolo “chiede aiuto alla comunità internazionale”, quest’ultima “appare incapace di gestire l’emergenza”.  

 

Erano parecchi, potenzialmente, i terreni per stabilire una proficua sintonia dopo le difficoltà degli ultimi quattro anni deflagrate nell’incidente dello scorso autunno, quando l’allora segretario di stato Mike Pompeo sulla rivista conservatrice First Things suggerì neppure troppo cortesemente al Vaticano di cambiare politica nei confronti di Pechino perché altrimenti a risentirne sarebbe stata la “credibilità della Chiesa”. Risultato: Pompeo che chiedeva di essere ricevuto dal Pontefice vide respingersi l’istanza con la motivazione, di rigido e quantomai gelido protocollo, che in campagna elettorale il Papa non riceve i contendenti in campo. Ma l’America first del primo scorcio di presidenza bideniana ha deluso le aspettative di buona parte della nomenclatura governativa d’oltretevere, disposta a chiudere un occhio sulle posizioni pro choice  dell’attuale presidente, prendendo le parti della compagine liberal dell’episcopato  che contestava il muro alzato dai conservatori  verso Biden. C’è, qui, tutta la diffidenza del seguace della teologia del pueblo verso la realtà yankee. Dopotutto, come disse ai giornalisti due anni fa sorvolando l’Africa, “per me è un onore se mi attaccano gli americani”.

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  • Matteo Matzuzzi
  • Friulsardo, è nato nel 1986. Laureato in politica internazionale e diplomazia a Padova con tesi su turchi e americani, è stato arbitro di calcio. Al Foglio dal 2011, si occupa di Chiesa, Papi, religioni e libri. Scrittore prediletto: Joseph Roth (ma va bene qualunque cosa relativa alla finis Austriae). È caporedattore dal 2020.