Quel che resta di Ratzinger

Benedetto XVI è il primo Papa che assiste in vita alla rettifica delle linee guida del suo pontificato

Matteo Matzuzzi

Dalla messa in rito antico alla sconfessione della “diplomazia della verità”, dal progetto sull'America all'Europa. Cade il mito (banale) della continuità

Avrà letto con certosina attenzione, Benedetto XVI, il motu proprio Traditionis custodes con cui il successore ha di fatto archiviato quel che il cardinale Robert Sarah, fino a pochi mesi fa prefetto per il Culto divino e la disciplina dei sacramenti, aveva definito una pietra miliare nella storia recente della Chiesa nonché una delle più grandi eredità ratzingeriane: “Nella storia Benedetto XVI sarà ricordato non solo come un grande teologo, ma anche come il Papa del Summorum Pontificum, il Papa della pace liturgica, colui che ha costruito un ponte ecumenico con l’oriente cristiano attraverso la liturgia latino-gregoriana”.  Chissà cosa deve aver pensato mentre, nel silenzio del monastero in cui vive da più di otto anni, immerso nella quiete dei Giardini vaticani, scorreva uno dopo l’altro gli articoli del documento che con tono duro e chiarezza cristallina fotografa il fallimento totale di quel tentativo di riconciliazione e, soprattutto,  della speranza di ritrovare l’unità. Esattamente lo stesso fine che oggi viene addotto per motivare il ritorno al passato, sbattendo fuori dalle chiese parrocchiali i cattolici che preferivano assistere alla messa celebrata nel rito antico, quasi fossero dei paria, mentre in quelle stesse chiese  oggi viene concesso di tutto, con le messe sovente trasformate in show  od occasione per dare sfogo al protagonismo del sacerdote di turno. E’ la volontà di imporre a quei settori refrattari – e ce ne sono, soprattutto oltreoceano – l’adesione al Concilio Vaticano II tramite motu proprio, mettendo per un momento da parte il dialogo con cui tanti in questi anni si sono riempiti la bocca e riempito ariosi pamphlet. 

 

Se quello era uno degli atti principali del pontificato, e a guardare bene le reazioni di queste settimane verrebbe da dire che effettivamente è così, il risultato è che con il Summorum pontificum viene imboccata a tutto gas la strada che porta all’archiviazione del pontificato ratzingeriano, riducendolo a parentesi, a mera fase di decantazione tra l’epopea giovanpaolina e la rivoluzione bergogliana.


Era nell’aria, un provvedimento del genere, se ne parlava da tempo. Ma non ci s’aspettava che la mannaia sarebbe caduta con tale forza, creando nuovi fronti che forse negli ambienti della corte romana non si vedono, ma che altrove sono ben chiari: “Sono rimasto  toccato dalla circostanza che alcuni tra coloro che provano grande amore per la forma straordinaria della messa hanno voluto sottolineare di voler pregare in modo speciale per il Papa.  E’ importante considerare che questo è un tempo di preghiera e di penitenza, affinché si conservi e sia rafforzata l’unità nella Chiesa”, ha scritto ai suoi fedeli il vescovo di Stoccolma, vera periferia della fede, il cardinale Anders Arborelius, non certo un collezionista di pizzi e tovaglie di lino (messe al bando dal giacobino vescovo portoricano di Mayagüez, che ha interpretato il motu proprio di Francesco alla stregua di un promemoria per il cambio dell’armadio quando viene la bella stagione). E come Arborelius si sono espressi tanti altri vescovi, tra cui diversi insospettabili e non classificabili nella categoria dei tradizionalisti cultori di gregoriano, pianete e – appunto – tovaglie di lino. 

 

Come sempre succede, Benedetto XVI viene strattonato per la talare:  i nostalgici del tempo perduto e i fieri oppositori del nuovo corso – non necessariamente le due categorie coincidono – ne evocano la voce, sperano che dal buen retiro dei Giardini vaticani arrivi una parola, una benedizione, una preghiera, un intervento. Gli altri, i battaglieri alfieri della primavera petrina, si dividono tra chi sostiene che dopotutto anche il predecessore di Francesco aveva previsto di rivedere a tempo debito il Summorum pontificum sulla base della sua applicazione e chi, più prosaicamente, chiude la faccenda dicendo che Bergoglio non ha fatto altro che rimediare a uno sbaglio, un grave errore, benché commesso in buona fede. 

 

Non si sa se Benedetto XVI passerà alla storia per il ristabilimento del rito antico, come diceva Sarah, di certo si sa che è il primo Papa (benché emerito) che assiste alla revisione dei suoi atti da parte del successore. Perché dopo anni passati a chiedersi in estenuanti discussioni accademiche se ci fosse più continuità o discontinuità, quasi che Francesco dovesse essere imbrigliato a forza in schemi che non gli erano (e non gli sono) propri, siamo immersi nella stagione del rinnovamento totale, al punto che oggi di fatto nessuno più parla di continuità tra i due pontificati. Certo, c’è la continuità dogmatica – e ci mancherebbe altro – ma sul resto, cosa c’è di uguale? E’, dopotutto, un falso problema: quello della continuità non è un dogma, i Papi sono uomini e fino a prova contraria hanno il diritto di governare come credono, di scegliersi i collaboratori che preferiscono, di svoltare a destra o a sinistra senza chiedere preventivi permessi a chicchessia. Era strano, semmai, quando ci si affannava a rimarcare il tratto comune tra Ratzinger e Bergoglio, notando semmai una differenza di carattere e  stile, tempo buttato a discettare di scarpe rosse e croci pettorali, ma sulle cose importanti (che poi sarebbe interessante conoscere quali effettivamente siano e fin dove si spinga la definizione di “importante”) si diceva che c’era perfetta identità di vedute. Ovviamente non era così, e oggi appare evidente. Un problema? No, non è di certo la prima volta che accade nella bimillenaria storia della Chiesa.

 

Dopo una partenza sprint e una successiva fase di stanca, Francesco sta ora accelerando sulla strada segnata già nel 2013, quando i cardinali riuniti nelle congregazioni generali del pre Conclave chiesero a chi sarebbe stato eletto pulizia, ordine e aperture. Verso gli ultimi e i lontani, verso i cristiani separati e gli appartenenti alle altre confessioni religiose. Aprire la Chiesa, insomma, farla uscire dalle secche dell’eurocentrismo. Ribaltare il globo e guardarlo da sud. Missione compiuta: il Papa preso quasi alla fine del mondo questo ha fatto e questo sta facendo, con i viaggi – Benedetto XVI non si era mai recato in oriente, Francesco l’ha fatto più volte – con le parole e, soprattutto, con le opere. Dal “Documento sulla fratellanza umana” di Abu Dhabi che supera e consegna ai libri di storia la storica lezione di Ratisbona alla travagliata esortazione apostolica post sinodale Amoris laetitia, fino al documento firmato dal Pontefice dopo il Sinodo sull’Amazzonia che seguì di pochissimo una presa di posizione del Papa emerito contro uno dei punti all’ordine del giorno proprio di quell’assemblea: “Il celibato sacerdotale è indispensabile, non posso tacere”, fu la sintesi giornalistica del suo ben più ampio e argomentato intervento consegnato a un libro scritto dal cardinale Sarah che ha animato il pre lockdown del 2020. Fino all’ultima presa di posizione, ancora una volta netta, contro il Sinodo biennale in corso di svolgimento in Germania, che minaccia l’unità della Chiesa cattolica ben più delle lotte politiche interne alla Conferenza episcopale americana, ripromettendosi di svoltare sul celibato, sull’ordinazione delle donne, sulla morale sessuale. Soprattutto, rovesciando la struttura piramidale dell’Istituzione romana, antico obiettivo che a intervalli costanti riemerge con forza dall’episcopato in riva al Reno. “Finché nei testi ufficiali della Chiesa parlerà solo la funzione, ma non il cuore e lo Spirito, l’esodo  dal mondo della fede continuerà”, avverte il Papa emerito rispondendo per iscritto alle domande del periodico Herder Korrespondenz. Quel che serve, nota Ratzinger, è “una vera e personale testimonianza di fede dai portavoce della Chiesa”, anche perché i testi della Chiesa tedesca sembrano scritti da persone  “per le quali la fede è solo ufficiale”. Anche in questo caso si cerca di trovare un trait d’union tra Papi e pontificati, quasi che sia necessario ribadire, per il bene della Chiesa, che i due sono in piena sintonia. Qualcuno parla addirittura di un aiuto di Benedetto a Francesco nel fronteggiare la fronda tedesca. E perché mai? Francesco ha dimostrato di non avere certo timore nell’esercitare il pugno di ferro nei confronti di chi non si allinea ai suoi legittimi desiderata. L’ha sempre fatto durante il pontificato quando lo riteneva necessario, mettendo in riga i cultori della collegialità (che non è certo la sinodalità, perché in un sistema sinodale ci si parla e consulta ma poi tutto va sub Petro) e prendendo anche decisioni non certo gradite al mondo. Se volesse, benché la situazione sia estremamente delicata, lo farebbe anche con l’episcopato tedesco, tanto più che uno dei suoi più autorevoli e fidati consiglieri, il cardinale Walter Kasper, colui che “fa teologia in ginocchio”, già da tempo ha espresso pubblicamente la propria preoccupazione per la deriva che si sta prendendo al di là delle Alpi. 

 

E il vecchio Papa guarda mentre i sottili equilibri da lui tracciati si rompono uno dopo l’altro, con il vaso di Pandora che una volta aperto non smette, inevitabilmente, di alimentare caos, divisioni, fratture e rivolte. Si è detto che una volta, scherzando o forse no, Francesco abbia osservato che forse lui potrebbe passare alla storia anche per aver diviso la Chiesa. Di certo non è, questo, un periodo di tregua. Joseph Ratzinger, divenuto Benedetto XVI, aveva posto al centro l’Europa e la necessità di rievangelizzarla in qualche modo, si pensi solo ai grandi discorsi alla Westminster Hall e ancora di più al Collegio dei Bernardini di Parigi, quando disse che “appare sempre più indispensabile che l’Europa si guardi da quell’atteggiamento pragmatico, oggi largamente diffuso, che giustifica sistematicamente il compromesso sui valori umani essenziali, come se fosse l’inevitabile accettazione di un presunto male minore”. Oggi le direttrici sono altre, diverse. Ferruccio de Bortoli, intervistando Francesco già nel 2014 per il Corriere della Sera, gli chiese perché non parlasse mai d’Europa. Si sarebbe compreso più tardi che l’Europa cui si voleva rivolgere il Papa preso quasi alla fine del mondo era quella delle periferie, da Lampedusa a Lesbo, dal Caucaso all’Albania, fino alle repubbliche baltiche. Niente Bernardins, niente Westminster, niente Bundestag. Come se ci fosse una rassegnazione nel considerare ormai irrimediabile il declino dell’Europa e si volgesse lo sguardo alle nuove terre d’evangelizzazione,  l’Asia e l’Africa soprattutto. E quando, rapidamente, è andato al cuore del vecchio continente, a Strasburgo ad esempio, o ha avuto l’occasione di parlare d’Europa, dalla sua bocca non sono uscite parole dolci: “Che cosa ti è successo, Europa umanistica, paladina dei diritti dell’uomo, della democrazia e della libertà? Che cosa ti è successo, Europa terra di poeti, filosofi, artisti, musicisti, letterati? Che cosa ti è successo, Europa madre di popoli e nazioni, madre di grandi uomini e donne che hanno saputo difendere e dare la vita per la dignità dei loro fratelli?”, disse ricevendo in Vaticano, nel maggio del 2016, il Premio Carlo Magno, davanti alle massime istituzioni comunitarie lì convenute per l’occasione.

 

Ma è nei rapporti con gli Stati Uniti che il disegno ratzingeriano è stato archiviato. Benedetto XVI è stato forse il Papa più americano di sempre. Nell’America vedeva un modello anche per la stanca Europa. L’America dove, disse a Washington durante il suo trionfale e celebrato viaggio del 2008, “la religione e la libertà sono intimamente legate nel contribuire a una democrazia stabile che favorisca le virtù sociali e la partecipazione alla vita comunitaria di tutti i suoi cittadini”. Era l’apprezzamento, benché prudente, per la civil religion americana. Uno schema completamente rovesciato dal successore, come notò in un articolo su Limes anni fa padre Giulio Albanese: “Nei Vangeli Gesù parla pochissimo della Chiesa, molto del Regno. E’ la strategia che Francesco sta usando per rettificare la civil religion di Benedetto XVI, privandola di un aspetto certo storicamente consolidato e non privo di contenuti preziosi, ma che non può costituirne il principale elemento identitario”.

 

E’ cambiato tutto: prospettiva, sguardo, orizzonti e obiettivi.  La diplomazia della verità ratzingeriana, giusta o sbagliata che fosse, ha ceduto il passo al realismo. Il più classico degli esempi è quello relativo alla Cina. Benedetto XVI aprì al grande paese asiatico con la storica Lettera ai cattolici cinesi del 2007. Uno squarcio dopo anni di tensione e di dialogo proseguito tra alti (pochi) e bassi (molti) a fari spenti, senza che ne fosse dato pubblico risalto. Ratzinger tese la mano alla controparte di Pechino, ma chiarendo che non era aria né tempo di appeasement: “La soluzione dei problemi esistenti non può essere perseguita attraverso un permanente conflitto con le legittime autorità civili; nello stesso tempo, però, non è accettabile un’arrendevolezza alle medesime quando esse interferiscano indebitamente in materie che riguardano la fede e la disciplina della Chiesa. Le autorità civili sono ben consapevoli che la Chiesa, nel suo insegnamento, invita i fedeli ad essere buoni cittadini, collaboratori rispettosi e attivi del bene comune nel loro paese, ma è altresì chiaro che essa chiede allo stato di garantire ai medesimi cittadini cattolici il pieno esercizio della loro fede, nel rispetto di un’autentica libertà religiosa”. Una differenza non da poco rispetto al nuovo corso, come si è visto nel silenzio pressoché totale con cui la Santa Sede ha seguito le proteste di Hong Kong di questi ultimi anni. Un silenzio doloroso, ma necessario per non far naufragare il fragile dialogo con il regime di Xi Jinping.

 

La riduzione a parentesi di un pontificato com’è stato quello di Benedetto XVI non può essere sancita dalle riflessioni giornalistiche o dai saggi sociologici di questi tempi. A giudicare sarà la Storia, che tra qualche decennio sarà in grado di valutare se la  semina del vecchio professore bavarese ha originato un grande raccolto. Magari propiziato, chissà, da quelle minoranze creative di cui Joseph Ratzinger parlò profeticamente già sul finire degli anni Sessanta e a cui guarda, con fiducia, dal suo eremo silenzioso nel cuore del Vaticano. 
  

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  • Matteo Matzuzzi
  • Friulsardo, è nato nel 1986. Laureato in politica internazionale e diplomazia a Padova con tesi su turchi e americani, è stato arbitro di calcio. Al Foglio dal 2011, si occupa di Chiesa, Papi, religioni e libri. Scrittore prediletto: Joseph Roth (ma va bene qualunque cosa relativa alla finis Austriae). È caporedattore dal 2020.