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La chiave dell'enciclica

Il registro principale di “Fratelli tutti” è un manierato anticapitalismo redistributore

Pietro De Marco

Vi è poco di classicamente cattolico (di teologia morale e sociale) nell’eloquio di Papa Francesco

Di fronte all’intervento di Loris Zanatta sulla Fratelli tutti (FT) anche un anti illuminista, quale sono diventato nei decenni, sbotta: esiste ancora il paradigma moderno, consapevole di sé, che non si associa al coro pro enciclica, laico o cattolico ma sempre geremiade moralizzante e predicatoria! Eppure, dirò subito, Zanatta nella sua sana reazione mostra anche il limite dello strumento critico che usa, una sua atemporalità, per cui la FT è affrontata a muso duro, come fosse un testo del secolo scorso, tra Pio XII e Paolo VI.

 

Vi è poco di classicamente cattolico (di teologia morale e sociale) nell’eloquio di Papa Francesco. Com’è stato notato, neppure san Francesco è il Poverello delle fonti e della spiritualità. È più prossimo a quello della letteratura. Il registro principale della FT non è né la valle di lacrime (assente, fin troppo, dalla spiritualità del Papa), né la condanna antimoderna, se non per l’uso degli argomenti antimoderni di ogni progressismo (non canonicamente marxista), non è nemmeno una economia della “santa povertà”; piuttosto, come Zanatta vede benissimo, un manierato anticapitalismo redistributore, ma non un pauperismo.

 

Dobbiamo piuttosto chiederci, noi “critici”, perché una tipologia di destinatari accoglienti sia quella che si sente abbandonata, e da molto, dalle culture intellettuali e dai partiti progressisti (post socialdemocratici) di appartenenza; e, magari, senza guida morale nella crisi pandemica in corso. Infatti la FT “invita [anche] a sollevare lo sguardo sui mutamenti che la pandemia ha già prodotto nell’animo umano e nelle strutture economiche, sociali, culturali, istituzionali e politiche”. L’enciclica chiama i sonnambuli al risveglio, poiché è “la realtà stessa che geme e si ribella”.

 

Più globalmente, altri sostengono la “profondità” dell’enciclica, “che non può essere considerata un semplice testo religioso, ma uno sguardo ampio, lucido e a tratti impietoso sulla realtà, accompagnato dalla gentilezza e dalla grande umanità che contraddistingue questo Papa […], simbolo di resistenza, di pace e di bellezza”. Altri ancora scrivono di “un pensiero lucido, ancorato alla realtà, persino laico”, che, a quanto capisco, sarebbe il massimo dell’elogio – in questo caso non immotivato. In un ispirato, e convergente, editoriale Marco Tarquinio (Avvenire, 6 ottobre 2020) difende l’uso della terna fraternità, libertà e eguaglianza nella FT perché “sono parole cristiane, laiche e rivoluzionarie, […] parole del comune vocabolario dell’umano, parole sovversive della guerra, della disumanità, della cattiva economia e della politica arrogante e dannosa”.

 

C’è dunque un genere di verità morale in questa recezione, di cui l’illuminista sempre fatica a prendere atto. Eppure conosciamo da tempo il ritorno (non parlo di riflusso) quasi obbligato delle maggioranze nel micro-relazionale e nel domestico, di fronte all’illeggibilità (non dico al degrado) dell’ordine sociale e delle pratiche di governo. La dimensione “domestica”, strutturalmente impolitica, è quella del cuore, cara a Papa Bergoglio. Il sentire è lo spazio dei valori. Parlare ai cuori non è difficile, bisogna però volerlo e non averne timore. Papa Francesco non ne ha e “ha cuore”. Tutto questo è più (e meno) che populismo. Scrivo senza entusiasmo.

 

Se questo quadro è plausibile, esso non rende oziosa, anzi richiede, la critica di area “liberale” (nel senso di Popper, come si usa dire, e dei critici austriaci del socialismo organicista) e “moderna”. Zanatta diagnostica bene un paradossale populismo buono, universalistico (un ossimoro), non nemico, per la verità, ma certo giudice delle libertà individuali (solo corrotte, alienate) come di ogni teoria, liberale o antiliberale, del conflitto. Bisogna dire che la tradizione liberale stessa non è senza capacità autocritica. Fu ampiamente discussa decenni fa la tesi-utopia della Theory of Justice di Rawls: un ordine universale di individui senza identità (ovvero senza la modalità ego-istica) perché protetti da un velo d’ignoranza di sé. L’individualismo moderno che si auto corregge, dunque. A questi uomini impossibili, necessariamente equi, il popolo autentico della FT oppone uomini necessariamente fratelli. In simmetrica impossibilità.

 

Ma più che di ottocentesche diffidenze  l’enciclica si anima di afflato socialistico (parlare, anche polemicamente, di comunismo pare concettualmente inesatto) e in questo orizzonte retorico è antimoderna: “Sempre dalla parte della vittima”, o “il mondo aperto ai più deboli”, fino alla “teologia del popolo, sviluppata dal Concilio”, sono enunciati (caldi titoli di Avvenire) rivelatori. Se si presta attenzione ai nn.157-158 della FT quel populismo preteso “autentico” – non è l’oggetto orribile che Zanatta paventa. Ora è cultura (etnica) indifesa, ora massa fraterna da riscattare.

 

Il popolo è visto sì come una realtà di valori e relazioni; esso deve, però, ancora tutto realizzarsi. O corrisponderebbe col popolo dei populisti. E’ dunque un non-esistente narrato come reale: utopia, alla lettera. Mentre l’individualismo combattuto dalla FT è il postmoderno protagonismo liquido (un ossimoro mio). Va da sé che questo individualismo post etico non può essere anche l’individualismo economico (che è nozione tecnica o non ha significato): si esigono due linee di ragionamento distinte che l’enciclica non possiede. Per questo direi a Zanatta nel ringraziarlo: se la prenda, con elasticità, con Papa Francesco e con l’anticapitalismo delle visioni panecologiche, con i cuori, magari, non con la dottrina cattolica. Quella era la battaglia di prima.

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