Papa Francesco (foto LaPresse)

È il principio di sussidiarietà che ridurrà le ineguaglianze, non l'esproprio globale

Flavio Felice

Il Papa, il reddito universale e la fine della povertà

Nella “Lettera ai movimenti popolari”, pubblicata il 12 aprile 2020, giorno in cui i cristiani hanno festeggiato la Pasqua, Papa Francesco ha chiesto l’istituzione di una retribuzione universale di base: “Forse è giunto il momento di pensare a una forma di retribuzione universale di base che riconosca e dia dignità ai nobili e insostituibili compiti che svolgete […] nessun lavoratore senza diritti”.

  

La lettera di Papa Francesco è stata recentemente commentata dal padre gesuita Gaël Giraud sul quaderno 4079 della Civiltà cattolica, in questi giorni in uscita, nel quale l’autore propone l’istituzione di una “imposta globale” sullo sfruttamento dei beni comuni, previo “accordo globale”.

 

L’argomento del Papa è importante e tutt’altro che inedito. La ricca tradizione dell’insegnamento sociale della Chiesa, sin dalla Rerum novarum di Leone XIII del 1891, si pose il problema di come aggredire la questione sociale, a valle della seconda Rivoluzione industriale, innescando processi d’inclusione a partire dal valore del lavoro, che combattessero la rendita e impedissero il perpetuarsi di posizioni di dominio politico, economico e culturale; volendo usare uno slogan, potremmo dire che la Rerum novarum si oppone alla logica servo-padrone, che è alla base della dialettica rivoluzionaria marxista: “proletari di tutto il mondo unitevi”, proponendo una visione riformatrice sintetizzabile nella formula: “Non tutti proletari, ma tutti proprietari”.

 

L’idea di giustizia sociale che emerge dalla Rerum novarum, sebbene l’espressione sia stata sviluppata quarant’anni più tardi da Pio XI nella Quadragesimo anno e poi nei decenni successivi da tutti i Pontefici, rinvia a un principio d’ordine, divenuto centrale nella filosofia sociale e nell’implementazione delle politiche pubbliche: il principio di sussidiarietà. Alla base di tale principio vi è la certezza che tra lo Stato impersonale e l’individuo abbandonato a se stesso, si profili una prima linea di difesa rintracciabile nei corpi intermedi, nei piccoli plotoni, nei mondi vitali, come ad esempio la famiglia, le imprese, le scuole, le associazioni, le chiese, e che il loro naturale agire sia indispensabile per un equilibrato sviluppo della persona umana e una più equa organizzazione politica, economica e culturale, fondata sulle nozioni di libertà integrale e di giustizia sociale.

 

E’ qui che entra in gioco la profonda critica di Giovanni Paolo II a una certa interpretazione dell’intervento pubblico: welfare state, per i suoi eccessi che lo hanno condotto a essere identificato con lo “Stato assistenziale”; scrive Giovanni Paolo II: “Disfunzioni e difetti della Stato assistenziale derivano da un’inadeguata comprensione dei compiti dello Stato. Anche in questo ambito deve essere rispettato il principio di sussidiarietà”. Dunque, la proposta di Papa Francesco andrebbe colta nel contesto teorico e pastorale nel quale è possibile comprendere la dottrina sociale della Chiesa, da Leone XIII a Papa Francesco, applicando quell’ermeneutica della continuità, così ben spiegata da Papa Benedetto XVI.

 

A questo punto, il tema del sostegno al reddito mediante uno dei possibili strumenti di cui la teoria economica e politica dispone non è affatto uno scandalo né per l’insegnamento sociale della Chiesa e neppure per la tradizione liberale. E’ opinione piuttosto condivisa che il liberalismo sia sostanzialmente insensibile alle sofferenze e alle necessità dei più deboli e dei più poveri. Se questa è l’accusa, potrebbe essere interessante riflettere sulle parole di alcuni padri del liberalismo contemporaneo, i quali si soffermano proprio sul ruolo dello Stato in prospettiva liberale, nonché sulla difesa dei più deboli, di coloro che, per diverse ragioni, non sono nelle condizioni di poter godere di pari opportunità e che non potrebbero mai prendere parte ai processi di mercato.

 

Ad esempio, le posizioni assunte da F.A.v. Hayek, da K. Popper, da L. Einaudi e da M. Friedman in merito al “reddito di cittadinanza”, “reddito minimo”, “reddito d’inclusione” e altri possibili strumenti stanno a dimostrare che la prospettiva liberale può essere profondamente solidale. La realistica e possibile riduzione delle ineguaglianze, in una società libera, è finalità chiaramente espressa dalla vitalità di non pochi corpi intermedi – sulla base del principio di sussidiarietà –, piuttosto che dal ricorso a un improbabile “prelievo globale” che sa tanto di “esproprio globale”, per di più, non si comprende come, globalmente condiviso.

 

La visione della dottrina sociale della Chiesa ci insegna che allo Stato spetta il compito di vigilare affinché chi oggi versa nel bisogno venga aiutato in modo che, in forza dell’aiuto ricevuto, domani possa essere a sua volta attivo protagonista e incluso nei processi democratici e di sviluppo. In ogni caso, come ammonisce il cattolico e liberale Einaudi, si dovrà riflettere sul fatto che una qualsiasi proposta “dipenderà sempre da molte circostanze, dalla ricchezza del paese, dal livello di vita, dalla distribuzione della proprietà, circostanze che dovrebbero essere esaminate caso per caso prima di giungere ad una conclusione che abbia il marchio della attuabilità e non delle semplici fantasie che sono per lo più socialmente pericolose”. E sempre Einaudi a precisare che “anche chi ammette il minimo dei punti di partenza, sa che bisogna cercare di stare lontani dall’estremo pericolosissimo dell’incoraggiamento all’ozio”.

 

In definitiva, la prospettiva qui brevemente presentata assume un principio liberale e cristiano: lì dove c’è miseria, la libertà non ha cittadinanza e dove la libertà non può esprimersi, la miseria non trova ostacoli.

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