Nelle prime celebrazioni liturgiche con fedeli, non tutti i sacerdoti hanno distribuito l’ostia con i guanti. In qualche caso si sono viste le pinzette eucaristiche (LaPresse)

Corpus Domini

Matteo Matzuzzi

La messa e la consacrazione al tempo del virus, tra guanti e pinze per la comunione. Una questione teologica

Prendiamo, ecco, la messa: il mistero della transustanziazione, il pane e il vino che diventano corpo, sangue e anima di Cristo. Il sacerdote può anch’essere indegno, nella sua vita, nei suoi pensieri: ma il fatto che è stato investito dell’ordine, fa sì che ad ogni celebrazione il mistero si compia. Mai, dico mai, può accadere che la transustanziazione non avvenga. E così è un giudice quando celebra la legge: la giustizia non può non disvelarsi, non transustanziarsi, non compiersi. Prima, il giudice può arrovellarsi, macerarsi, dire a se stesso: non sei degno, sei pieno di miseria, greve di istinti, torbido di pensieri, soggetto a ogni debolezza e a ogni errore; ma nel momento in cui celebra, non più. E tanto meno dopo. Lo vede lei un prete che dopo aver celebrato messa si dica: chissà se anche questa volta la transustanziazione si è compiuta? Nessun dubbio: si è compiuta”. Leonardo Sciascia, in questo brano del Contesto, parlava d’altro, è ovvio. Eppure l’estratto bene s’adatterebbe a una delle tante discussioni di questo tempo sulla comunione sacramentale. Finita la stagione delle messe in streaming, seguite più o meno attentamente dai fedeli privati della celebrazione in chiesa a causa di un minuscolo e invisibile virus, il tema del momento è quello dei guanti e delle pinze. Roba da catalogo d’un centro estetico, detta così. Se per i dispenser di gel disinfettante nessuno ha obiettato né clamori si sono levati per la sostituzione dei banchi con le seggiole che di solito attendono qualche festa parrocchiale per essere tolte dal ripostiglio, quel che non va giù a una considerevole fetta di fedeli (sacerdoti compresi) è la modalità protocollare con cui si dà la comunione. I rigidi esperti del Comitato tecnico-scientifico, supportati da luminari molto televisivamente esposti che forse per la fama acquisita discettando di polmoniti interstiziali e fattore R0 si sono improvvisati liturgisti, hanno chiarito fin da subito che quello è il momento più delicato. Se ci sarà un contagio, è lì che avverrà: nel momento in cui il sacerdote distribuirà l’ostia. E’ questo punto che ha frenato la riapertura delle chiese alle messe con il popolo: come fare, tra pinzette e guanti, mascherine e distanziamento sociale. Di darla in bocca, non se ne parla proprio. Anche se, come ricordava in un’intervista alla Fede quotidiana il presidente dell’Associazione medici cattolici italiani, Filippo Boscia, “nel nome di questa ossessione siamo arrivati alla follia. Dopo la spagnola, abbiamo seguito a prendere la comunione in bocca, ad esempio, e tutto è rimasto come prima. Penso che stiamo andando oltre il buon senso, non dobbiamo correre dietro a certe cose. Salute certamente sì, ma esasperazioni o stravaganze no. In ogni caso, da medico, credo che la comunione in mano sia igienicamente meno sicura dell’altra. Del resto non ci dicono ogni giorno di non toccare cose, di non portarci le mani al naso e occhi? Ovviamente bisogna mantenere il distanziamento tra le persone, lavare bene e spesso le mani. Non bisogna dare spazio a chi si abbandona a fantasie a speculazioni anche commerciali”. Qualcuno è sbottato, come un parroco del palermitano che ha preferito dimettersi piuttosto che distribuire l’ostia con i guanti monouso. “La Comunione data nelle mani è un sacrilegio, prenderla con un guanto di plastica è un altro sacrilegio e buttare nella spazzatura quella plastica che ha toccato il Corpo di Cristo è il terzo sacrilegio. E’ un peccato gravissimo”, ha detto don Leonardo Ricotta prima di sbattere la porta e andarsene dalla parrocchia di Sant’Agata a Villabate. Non prima d’aver chiarito ch’egli combatte “i macellai del Corpo di Cristo”.

 

Scrisse Sciascia: “Lei lo vede un prete che dopo aver celebrato la messa si dica ‘chissà se anche stavolta la transustanziazione si è compiuta’”?

Altri, suoi confratelli, sono andati addirittura oltre, sistemandosi anche una bella visiera da parrucchiere o da misuratore di febbre in stazione, ché non si sa mai quel che può accadere. Il problema è che neanche il comportamento opposto a quello temerario di don Ricotta piace. Ad Arezzo, infatti, il vescovo s’è detto contrariato per la scelta di don Fabio Magini di distribuire la comunione con le pinzette. Non va bene neanche questo. Ad andare bene, invece, è l’igienizzazione plurima, con guanto o senza e l’ostia che assume quel retrogusto di gel disinfettante che in tanti hanno denunciato con un po’ di perplessità dal 18 maggio in poi. Sembrava una discussione di lana caprina, disquisizioni di terz’ordine relegate a qualche blog o gruppo su Twitter rispetto alla “riconquista” della messa con i fedeli, della possibilità di tornare in chiesa dopo più di due mesi abbandonando il rito della messa su YouTube. Invece, la disputa è viva. Scriveva poche settimane fa sul Foglio il cardinale Robert Sarah, prefetto della congregazione per il Culto divino e la disciplina dei sacramenti, che “ascoltiamo storie di sacrilegio che tolgono il fiato: sacerdoti che avvolgono le ostie consacrate in sacchi di plastica o di carta, per consentire ai fedeli di usare liberamente le ostie consacrate e portarle a casa, o anche altri che distribuiscono la santa comunione osservando la distanza corretta e usando, ad esempio, una pinzetta per evitare il contagio. Quanto siamo lontani da Gesù che si è avvicinato ai lebbrosi e, allungando le mani, li ha toccati per guarirli, o da padre Damiano che ha dedicato la sua vita ai lebbrosi di Molokai (Hawaii). Questo modo di trattare Gesù come un oggetto senza valore è una profanazione dell’eucaristia.  Non l’abbiamo spesso considerata di nostra proprietà?  Tante volte ci siamo comunicati attraverso l’abitudine e la routine, senza preparazione o ringraziamento. La comunione non è un diritto, è una grazia libera che Dio ci offre. Questo tempo ci ricorda che dovremmo tremare di gratitudine e cadere in ginocchio davanti alla Santa Comunione”.

 

Mons. Pizzaballa: “Dio ci ha dato un cervello da usare per conservare la nostra vita. Usare l’intelligenza non è contro la fede”

Intanto, bisognerebbe chiarirsi su cosa sia e cosa rappresenti l’eucaristia. Il professor Kurt Appel, docente di Teologia fondamentale e di Filosofia della religione presso l’Università di Vienna e direttore della piattaforma di ricerca interdisciplinare “Religion and Transformation in Contemporary European Society”, dice al Foglio che “la celebrazione dell’eucaristia è prima di tutto una festa, il che significa espressione di gioia infinita. La creatività umana, espressa in pane e vino, trasforma la natura in spirito e cultura, e riceve un volto e un nome tramite la presenza di Gesù. Egli è presente nella ricreazione festiva del mondo. Questa nuova creazione – continua il professor Appel – si manifesta in una profonda conversione verso l’Altro vulnerabile, la cui sostanza è l’empatia incarnata in Gesù risorto. Questo è il mistero della fede e per questo la liturgia non deve stare nell’ombra della paura mortale e del risentimento verso l’Altro. Ritengo – prosegue – le mascherine e i guanti poco adeguati in una celebrazione liturgica perché sollecitano maggiormente un effetto terrorizzante piuttosto che festoso. Penso che la prudenza, ora necessaria, si possa realizzare in altri modi”. Certo, poi c’è il problema della fede altrui valutata e giudicata secondo criteri tutti esteriori: guanti e mascherine, appunto. O se il fedele si inginocchia. Non è pericoloso? “Questa forma di giudicare l’Altro ha qualcosa di gretto. Quando Dio viene, è davvero importante che la cravatta sia verde o gialla? La domanda è piuttosto se la liturgia, i canti, i vari contesti della messa, la vita quotidiana da cui la liturgia dovrebbe scaturire, permettano o no un’atmosfera festosa. Quando la vita comunitaria è triste, sarà triste di conseguenza anche la liturgia: se una comunità irradia ottimismo, conforto ed empatia, allora sarà più tangibile anche il carattere festoso dell’eucaristia”.

 

“Mascherine e guanti sono poco adeguati per una messa: sollecitano un effetto più terrorizzante che festoso”, dice il teologo Kurt Appel

In tutto questo, non può essere sottovalutato il rischio di svalutare il simbolismo proprio di una celebrazione liturgica. Insomma: gli elementi sui generis potrebbero alla lunga svilire quel che la messa rappresenta. Secondo Appel, “sarebbe bello se le comunità cattoliche prendessero coscienza del senso profondo, della ricchezza e del gusto delle espressioni liturgiche esistenti, senza ricadere in una superficialità ritualistica. Se si vuole percepire la pienezza delle forme liturgiche, non aiuterebbe per esempio prendere del buon pane non lievitato al posto dell’ostia? Non va dimenticato che pane e vino rappresentano la ricchezza completa della vita e la presenza di Gesù”. Quanto alle pinze e strumenti affini, il teologo austriaco dice di non voler impelagarsi in troppe discussioni, “perché questi arnesi non hanno storia, sono privi di stile e non esprimono il carattere festivo dell’eucarestia”.

 

Ma siamo sicuri che mettere in pratica tutto ciò sia così semplice? Non sono pochi i vescovi che già durante l’epidemia sostenevano la necessità di approfondire specifiche catechesi una volta che si sarebbe tornati a una situazione di normalità. Non si sa, dicevano, cosa si troverà dopo due mesi di celebrazioni guardate – chissà quanto attentamente – davanti al televisore o al computer. “Mi domanderei: davvero le comunità non hanno fatto niente durante la pandemia, davvero non c’è stata vita ecclesiale? Se fosse proprio così, anche una catechesi post Covid aiuterebbe probabilmente poco. In questo tempo ho percepito che tante comunità, sacerdoti e diocesi, soprattutto in Italia, hanno creato delle possibilità di pregare insieme con grande pazienza, attenzione e dedizione e si sono attivati affinché i loro parrocchiani non restassero soli. Negli ultimi decenni la vita liturgica delle comunità cristiane è diventata più monotona rispetto ai tempi passati. Si è concentrato tutto sulla celebrazione della messa e così altre forme liturgiche sono passate in secondo piano, per esempio la lectio divina, il breviario, le adorazioni, le catechesi, il rosario. Penso che la crisi determinata dal virus abbia suscitato in tante comunità forme di liturgia molto creative e in questo modo ci si è avvicinati paradossalmente di più alla tradizione cattolica che non ha mai limitato la liturgia alla celebrazione eucaristica”.

 

Che poi, va detto, ci sono pinze e pinze. Ricordava mons. Pierbattista Pizzaballa, amministratore apostolico del Patriarcato latino di Gerusalemme, che “nel museo della Custodia di Terra Santa sono ancora visibili le pinze usate dal sacerdote durante le pestilenze per dare la comunione agli appestati. Questo costituisce una mancanza di fede? Certo che no. Si è trattato di prudenza, un mezzo per non contaminare gli altri. La fede – aggiungeva mons. Pizzaballa – non sostituisce la ragione. Dio ci ha dato un cervello, un’intelligenza da usare e sviluppare, per conservare la nostra vita e quella degli altri che ci sono stati affidati. Usare la nostra intelligenza non è contro la fede. La fede senza ragione è come un’anima senza corpo. Abbiamo bisogno di entrambi”. In effetti sarebbe sufficiente soffermarsi su certe miniature e tele dei secoli passati per accorgersi che pinze (e pinzone) erano d’abitudine quando si trattava di concedere al malato grave di comunicarsi. E nessuno si scandalizzava se il prete attaccava l’ostia a un bastone simile a una canna da pesca. Il fine, insomma, giustificava eccome il mezzo. Alla Valetta è conservato un quadro di Pietro Paolo Caruana in cui un sacerdote, durante la peste del 1813-14, amministra la comunione a una malata attraverso un paio di grandi pinze. Pinze che hanno una dignità anche nella Treccani, se è vero che “il ricorso a pinze ad recipiendum hostiam in calice ritorna infatti più volte sia negli elenchi dei tesori papali del periodo avignonese – con varianti terminologiche o distinzioni relative ai materiali, come per esempio nel caso di tenacula de argento o delle furchete de auro pro recipienda ostia”.

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  • Matteo Matzuzzi
  • Friulsardo, è nato nel 1986. Laureato in politica internazionale e diplomazia a Padova con tesi su turchi e americani, è stato arbitro di calcio. Al Foglio dal 2011, si occupa di Chiesa, Papi, religioni e libri. Scrittore prediletto: Joseph Roth (ma va bene qualunque cosa relativa alla finis Austriae). È caporedattore dal 2020.