L'ospedale Sacco di Milano (foto LaPresse)

Il prete del Sacco che non ha paura della grande domanda: perché?

Emmanuel Exitu

“Credenti e no, tutti, si pongono questa domanda, proprio come cercano il respiro”. Parla il cappellano dell’ospedale milanese che cura il Covid

Il momento più difficile per chi partecipa all’atto politico oggi più diffuso, il Rosario via Zoom, è ascoltare nomi che una sera sono nella lista dei malati per cui pregare e la sera dopo passano in quella dei morti, magari proprio quando si meditano i misteri luminosi o addirittura gaudiosi, moltiplicando lo sgomento e il senso di mistero: sono sillabe che rimbombano nelle orecchie per molto tempo.

 

Mentre la notte avanza però si sente che la tentazione di tenersi a distanza non è vinta, e cavalcando la scusa dell’ottemperanza al dpcm il fondo del cuore bisbiglia come Gollum: fregatene, tanto se ci ammaliamo si muore raramente. La battaglia più difficile però non è la tentazione in sé, ma lo scandalo che il nostro stesso cuore ci offre. Ci pensavamo migliori, e ci scopriamo peggiori: forse è l’unico miglioramento che è lecito sperare. (“A meno che”, sussurra un altro pezzo del cuore, da un fondo più fondo, in cui Gollum non arriva). A voler essere precisetti si potrebbe citare il Qoelet, niente di nuovo sotto il sole, ma siccome siamo incattiviti preferiamo il più sbrigativo Pavese, Nessuna disgrazia farà di un fesso una persona intelligente, confermato da Peguy: Gli uomini sono come sono e mai li si potrà cambiare. Nessuna pandemia ci salverà dalla nostra meschinità fessa. Fa scoprire cose, però: che ci allontana da tutti e ci avvicina a noi stessi (esperienza non gradevole); che morire è brutto, ma è peggio morire senza amore; e che, anzi, ancora peggio è vivere senza amore; e che, orrendo, in questo stato ‘senza amore’ di solito viviamo – è la scoperta più profonda svelata dal virus. Ma più dei pensieri, è la desolazione invincibile che ci prende la gola quando si pensa a chi muore solo, e la strozza che si chiude definitivamente quando s’immagina il peso senza fine dell’ultimo sguardo che non si potrà dare alle persone amate. Quanto pesa, sul nostro cuore e sul cosmo intero, quello sguardo che non si può dare e rimarrà non dato?

 

Fuori dai reparti Covid, all’inizio si assiepavano i parenti, spesso implorando in ginocchio i medici, per un ultimo contatto; e i medici, inginocchiandosi a loro volta, rispondevano il no inderogabile. Oggi fuori dai reparti non c’è nessuno, ma i parenti si assiepano lo stesso, la sera davanti al telefono per ricevere notizie dai medici. Tra loro, tra gli assiepati davanti a reparti c’era, e c’è tuttora, uno che non è parente di nessuno ma come un parente non si dava né si dà pace, e come un parente, né più né meno, cercava di entrare. Ora è dentro, con i malati e con il personale medico. Si chiama don Giovanni Musazzi, e fa il cappellano al Sacco, oggi tutto Covid. Di lui si è avuta notizia durante un rosario serale e per smuovere qualcosa nel cuore, per combattere l’indifferenza lo si è andato a cercare pur sapendo che aveva già rifiutato parecchie interviste tv. Qualcosa l’ha convinto, e allora racconta quando si è trovato dentro lo tsunami dei malati: “All’inizio i medici hanno fatto quello che dovevano: non si sapeva cosa fosse, quindi per proteggere e curare i pazienti, tutti fuori. Tutte le porte si sono chiuse, tutti i corridoi e le aree sono state segnate con lo scotch per terra che divide le zone tra infette e pulite. Ho fatto il corso con il personale medico, cosa fare e soprattutto cosa non fare. Vestizione e, più pericolosa, svestizione: per togliersi tutto servono sei paia di guanti, mezz’ora e attenzione massima. E devo farla ogni volta che mi sposto, cinque-sei volte al giorno. Per il giro di tutti i reparti ora ci metto sei giorni. Poi, chiaro, vado prima dove chiamano”. Lo tsunami ha travolto tutto; tranne una cosa, che saltava e continua a saltar fuori dall’onda come un pallone che si cerca invano di tener sotto: la domanda sul perché. Quella domanda è lì, che galleggia inaffondabile.

 

“Credenti e no, tutti, si pongono questa domanda, proprio come cercano il respiro. Alcuni la fuggono: con la rabbia o le false risposte tipo ‘tanto è lo spirito che conta’, o con l’alienazione tipo ‘addormentatemi’. Altri accettano di viverla”. La malattia sorprende perché è una croce, come si dice, che rivela la nostra totale impotenza, ma sopra di essa è inchiodata la domanda: perché? che valore ha la mia vita? È quella domanda che tiene a galla: cosa succede quando incontra un prete? “Di solito da me cercano conforto. Solo che sin da quando ho cominciato a fare il cappellano, due anni fa, ho scoperto che non sono capace di portare quello che aspettano, e d’altra parte non mi piace mentire. Non riesco a dire ‘andrà tutto bene’, perché penso che dirlo sia una presa per i fondelli”. E quindi cosa porti? “Porto quello che fa vivere me, attraverso me. Porto il mio rapporto con Dio. Nel periodo pre-Covid sentivo sguardi di sufficienza: poveretto, ci crede ancora. Adesso vedo che solo esserci crea un’attenzione che prima non c’era; e una parola, detta anche in fretta, fa commuovere la gente. E loro commuovono me. Cercano, come me”.

 

Nessuno ha mai detto vade retro prete? “No, al massimo qualcuno mi ha fatto notare che il camice impermeabile sarebbe meglio che non lo usassi io ma un’infermiera”. Con lo scafandro si vedono solo gli occhi, non si vede che sei un prete: “All’inizio quando entravo tutto chiuso nelle protezioni, qualche infermiera che aspettava un medico mi puntava: è lei l’oculista?”. Allora per farsi riconoscere scrive sul camice esterno la parola prete ogni volta che si cambia, cinque-sei volte al giorno. “E mi serve scriverlo. Non ho mai ricevuto tanti grazie come in questo periodo, pieni, solo perché passo e chiedo come va”. E qui si scopre che la maggior parte del tempo non sta con i malati, ma col personale sanitario: “Sulle scale, di fianco all’ascensore. Ma non è diverso da quello che facevo prima. Mi sembrava assurdo limitarmi ai malati che vanno e vengono e non cercare un rapporto con chi è qui tutti i giorni come me”.

 

Qualche clericale ha storto il naso: il cappellano dovrebbe dedicarsi ai malati, perché i medici non hanno bisogno. “Niente di più falso. Soprattutto ora che fanno cose incredibili, che mi lasciano senza fiato, lavorando al massimo. E ti viene voglia di stare con loro, se puoi aiutare”. Si spara la domanda a cui si pensa da un po’: ma non hai paura che ti facciano santo? Don Giovanni scoppia a ridere, quindi si insiste: dai, se muori in servizio è perfetto, ti fanno martire, saresti una storia edificante. E si cita l’Assassinio nella Cattedrale, quando Becket, presagendo che sarà ucciso per la fede, nella predica per Santo Stefano primo martire, dice ai fedeli ma soprattutto a se stesso che il martirio non è frutto della volontà di un uomo, ma del disegno di Dio. “Non credo che ci riuscirebbero a farmi santo. Non ho cercato questa situazione. Comunque a Eliot, replico con Mission Impossible: l’anonimato è una calda coperta!”.

  

Parola di prete che non dimentica l’arte della domanda “che non cancella l’angoscia subita”, come scrive Ratzinger nella meditazione sul Sabato Santo. “Il coronavirus sta facendo uscire in modo prepotente che nessuno è capace di stare in silenzio, anche noi religiosi sprechiamo la grazia. Il silenzio fa venire su i nodi irrisolti della giornata trascorsa, quando vedi un sacco di cose che nessuno può spiegarsi. Non puoi spiegare, però puoi amare”. Cosa fai, cosa ami durante il tuo silenzio? “La sera sono fuso, spesso non ho nemmeno la forza di pensare. Prendo libri che mi hanno aiutato, alcuni in sesta lettura, e mi scrivo le frasi. Poi me le porto davanti al Santissimo, le leggo, leggo l’Ufficio delle Letture”. E poi? “E poi mi metto a chiedere: vedi come siamo ridotti?”.

 

Domande, domande come palloni che galleggiano su qualunque tsunami. Bisognerebbe esplorare il silenzio, galleggiarci sopra. E ai malati cosa chiedi? “Di pregare per il personale, che possa continuare a fare le cose portentose che fa senza ammalarsi, e poi per me: ho una gran paura di ammalarmi”. Cosa farai quando il virus mollerà la presa? “Vado dal papà del mio amico Gianni che ha un nuovo cane da caccia, per fare i primi addestramenti sulle pernici.”  

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