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Sulla libertà religiosa l'Italia dov'è?

Pasquale Annicchino

Ventisette paesi hanno aderito all’alleanza che si propone di affrontare il tema delle persecuzioni religiose nel mondo e di difendere la libertà di professare la propria fede. C’è un grande assente: noi

Roma. Italia assente, non pervenuta al tavolo. Pochi giorni fa il segretario di stato americano, Mike Pompeo, ha ufficialmente reso pubblica l’alleanza di 27 paesi che si propone di affrontare il tema delle persecuzioni religiose nel mondo e di ribadire un principio semplice, ma sempre più minacciato: il diritto di libertà religiosa non è un ideale dei paesi occidentali, ma la pietra angolare su cui costruire il rispetto dei diritti civili in tutte le società. Oltre agli Stati Uniti questo è l’elenco dei paesi che hanno aderito: Albania, Austria, Bosnia Erzegovina, Brasile, Bulgaria, Colombia, Croazia, Repubblica Ceca, Estonia, Gambia, Georgia, Grecia, Ungheria, Israele, Kosovo, Lituania, Lettonia, Malta, Olanda, Polonia, Senegal, Slovacchia, Togo, Ucraina e Regno Unito. In un comunicato congiunto del 5 febbraio, i governi di Polonia e Stati Uniti hanno annunciato che il prossimo Ministerial Meeting to Advance Religious Freedom si terrà a Varsavia dal 14 al 16 luglio di quest’anno.

 

E l’Italia? Il paese che, rispetto ad altri, avrebbe un vantaggio assoluto nella diplomazia religiosa, non fosse altro per il capitale umano e sociale sviluppato nel corso di millenni? Perché non è presente nella coalizione dei 27 volenterosi? Davvero questo paese non ha nulla da dire nemmeno su un tema, quello della libertà religiosa, in cui vanta un’expertise difficilmente raggiungibile da altri paesi? Fonti del Dipartimento di stato statunitense confermano al Foglio che il governo italiano era stato invitato a far parte dell’Alleanza, ma dalla Farnesina hanno fatto sapere di non essere pronti a dare la propria disponibilità. Inoltre, sottolineano dal Dipartimento di stato, la Farnesina ha criticato la previsione di possibili sanzioni contro i paesi che violano il diritto di libertà religiosa contenuta nella Dichiarazione di princìpi pubblicata il 5 febbraio. La Dichiarazione elenca inoltre le aree di priorità d’intervento dell’alleanza, tra cui le leggi sulla blasfemia, l’assistenza alle persone imprigionate a causa della loro fede religiosa, il diniego di registrazione e concessione della personalità giuridica nei confronti di gruppi religiosi e non religiosi. Nemmeno il chiarimento fornito dai diplomatici statunitensi, che hanno evidenziato come quella delle sanzioni fosse solo un’opzione e non un automatismo, è servito a convincere gli italiani.

 

Negli anni passati, nonostante le poche risorse impegnate sul tema, l’Italia si è sempre contraddistinta per un ruolo attivo e chiaro sul tema delle persecuzioni religiose, spesso giocando di sponda anche con la Santa Sede. Abbiamo ancora davanti le immagini della liberazione di Meriam Ibrahim, la giovane condannata a morte in Sudan per essersi convertita al cristianesimo poi liberata e atterrata in Italia su un volo della Presidenza del Consiglio. L’Italia non ha lesinato sforzi nemmeno nelle sedi internazionali, dalle Nazioni Unite all’Unione europea. Oggi, invece, Luigi Di Maio decide che il nostro paese non sarà protagonista della principale iniziativa internazionale sul tema. Una decisione dettata da quali argomenti? Mancanza d’interesse? Pressioni da parte di governi protagonisti di violazioni sistematiche dei diritti delle minoranze, che siano musulmane o cristiane? C’entrano qualcosa le critiche esplicite che Mike Pompeo ha rivolto al Partito comunista cinese, ringraziando al contempo i paesi che hanno aderito all’iniziativa “nonostante le pressioni cinesi”?

 

Farebbe bene il ministro degli Esteri a offrire delle spiegazioni, così come sarebbe interessante comprendere la posizione della Santa Sede. A oggi non possiamo che registrare l’unico dato oggettivo: l’Italia è assente non giustificata.

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