Papa Francesco (foto LaPresse)

La successione di Papa Francesco

Matteo Matzuzzi

Ipoteca sulla chiesa. Con i nuovi cardinali, il Conclave che eleggerà il prossimo Pontefice sarà a maggioranza bergogliana. L’obiettivo è di rendere irreversibile la riforma iniziata nel 2013

Da una parte i trionfalismi degli amici, che esultano per la lista dei cardinali venturi in gran parte d’orientamento liberal e inondano la fluida galassia social di soddisfazione, complimenti ed emozioni varie ed assortite per le scelte compiute dal Papa. Dall’altra, come accaduto spesso in questi ultimi sei anni e mezzo, la delusione che si mischia alla frustrazione, in un crescendo di rabbia per il vicario di Cristo che divide e promuove solo chi fa parte del suo battagliero schieramento.

  

L’annuncio fatto domenica scorsa al termine dell’Angelus da Francesco è rilevante, perché conferma, semmai ve ne fosse ancora bisogno, che l’idea di chiesa che ha in mente è ben chiara e non ammette troppe discussioni, men che meno opposizioni. Anche questa è pura logica evangelica, dopotutto: “Chi non è con me è contro di me, e chi non raccoglie con me, disperde”, hanno scritto Matteo e Luca. Fare paragoni con il passato, quando Benedetto XVI portava in Collegio contemporaneamente Raymond Leo Burke e Reinhard Marx, il diavolo e l’acqua santa (ciascuno secondo la propria sensibilità decida l’accoppiamento nome-definizione), è inutile e non è nient’altro che un’opera buona per nostalgici. Jorge Mario Bergoglio, dopotutto, è stato eletto per cambiare e non per conservare. Lo ha detto lui per primo, l’hanno ripetuto in coro gli elettori che lo attorniavano la sera del 13 marzo 2013. “Tutte le comunità facciano in modo di porre in atto i mezzi necessari per avanzare nel cammino di una conversione pastorale e missionaria, che non può lasciare le cose come stanno. Ora non ci serve una semplice amministrazione. Costituiamoci in tutte le regioni della terra in uno stato permanente di missione”, è scritto nella Evangelii gaudium, l’agenda programmatica del pontificato. Prove se ne sono avute in abbondanza, dai Sinodi sulla famiglia del biennio 2014-’15 al prossimo sull’Amazzonia, con gli attivissimi vescovi tedeschi che ancora una volta sperano di cambiare la chiesa con la clava usando le criticità in cui si trovano le popolazioni che abitano lungo il grande fiume sudamericano. Già si sente ripetere il solito refrain, che a seconda di chi lo ascolta pare una minaccia o una benedizione: dopo ottobre, nulla sarà più come prima.

 

Fare paragoni con il passato, quando Benedetto XVI portava in Collegio (contemporaneamente) Burke e Marx, è del tutto inutile

Le prossime creazioni cardinalizie seguono questa strada, non c’è nulla di improvvisato. Anche a costo di mettere il cappello purpureo sul capo di un uomo del calibro di Michael Louis Fitzgerald, che Benedetto XVI bandì dalla curia romana a causa delle più che ambigue posizioni assunte dal vescovo sul dialogo interreligioso e in particolare con l’islam. Discettare su questo o quel nome, insomma, è superfluo. Il tutto, per usare un’espressione cara al Papa gesuita, è superiore alla parte. L’obiettivo, manifesto, è quello di andare al largo, generare processi, avviare cambiamenti talmente profondi che sia impossibile tornare indietro. “Chiedo al buon Dio che mi porti con sé quando i cambiamenti saranno irreversibili”, disse il Pontefice all’ex preposito della Compagnia di Gesù Adolfo Nicolás, nel corso dell’incontro in cui quest’ultimo si congedava. Lo raccontò proprio l’allora Papa nero sulla rivista spagnola Mensajero.

 

Dieci nuovi cardinali a ottobre, tutti accomunati da un idem sentire sui grandi temi che fanno da sfondo al pontificato bergogliano

E per rendere i cambiamenti irreversibili non bastano le riforme, piccole o grandi che siano, della curia. Né gli anni di purificazione spirituale, i giubilei straordinari della misericordia. La chiesa si cambia anche cambiando gli uomini che la governano. E’, ad esempio, l’operazione in corso da anni negli Stati Uniti, dove si tenta di abbattere il fortino – assai resistente – del conservatorismo muscolare che ha dominato la scena nell’ultimo trentennio, plasmando almeno due generazioni di vescovi. Per edificare al suo posto una chiesa dove sia chiaro che “l’essenza della nostra identità va cercata nell’assiduo pregare, nel predicare e nel pascere”, benché non siano poche “le tentazioni di chiudersi nel recinto delle paure, a leccarsi le ferite, rimpiangendo un tempo che non torna e preparando risposte dure alle già aspre resistenze”. Lo disse, Francesco, parlando ai vescovi americani riuniti nella cattedrale di San Matteo a Washington, nel settembre del 2015.

 

Negli Stati Uniti questo è lo schema perseguito da anni: cardinalato negato ai vescovi conservatori di Philadelphia e Los Angeles, Charles Chaput e José Horacio Gómez, e concesso ai liberal Blase Cupich e Joseph Tobin. A Washington, dopo la burrasca che ha colpito Thedore McCarrick e in misura diversa il successore Donald Wuerl, la scelta è caduta sull’ultraprogressista (ed ex presidente della Conferenza episcopale americana) Wilton Gregory, già ausiliare del campione liberal Joseph Bernardin, storico arcivescovo di Chicago. Scelte ben chiare, del tutto legittime, che però stentano ancora a fare presa sulla base, che continua a eleggere ai vertici della Conferenza episcopale presuli di stampo conservatore. E’ la fatica a fare propria l’agenda di Francesco, percepito sempre come “estraneo” alla cultura, ai ritmi e alle laiche liturgie del contesto nordamericano.

 

Per rendere irreversibile la riforma, al di là del “rimpasto” episcopale, è fondamentale cambiare volto al collegio che, prima o poi, sarà chiamato a eleggere il prossimo Papa. Stando al numero elevato di concistori promossi da Francesco e le continue deroghe al tetto di cardinali elettori fissato a 120 da Paolo VI, il punto pare essere ben chiaro a Santa Marta. Davanti all’evidenza di una curia romana che fatica a tenere il passo del callejero Bergoglio e che in buona parte forse s’è pentita della scelta compiuta alla fine dell’inverno del 2013, bisogna cambiare. Andare al largo, a pescare uomini in quelle periferie geografiche ed esistenziali così care a Francesco. Lontano, alle Mauritius piuttosto che nel Laos, a Stoccolma e in Guatemala, a Capo Verde e ad Haiti. A migliaia di chilometri di distanza da quella curia che lui, da cardinale, frequentava il meno possibile, e che da Papa è riuscito a cambiare probabilmente meno di quanto avrebbe voluto. Una grande assemblea di uomini di chiesa presi da ogni parte del mondo, che non si conoscono e che Roma l’hanno frequentata ben poco, quasi che ciò fosse una garanzia di purezza. Uomini che, però, hanno in comune l’adesione ai princìpi indicati nella Evangelii gaudium, che sono coerenti con il programma illustrato e portato avanti da Jorge Mario Bergoglio. La lista annunciata domenica scorsa ne è una sorta di riassunto perfetto: dialogo interreligioso, attenzione ai migranti, emergenza climatica, cura degli ultimi.

 

Le scelte di Francesco non sono casuali, ma erano già delineate nella “Evangelii gaudium”: periferie, missione, apertura al mondo

La porpora consegnata in contemporanea al successore del cardinale Jean-Louis Tauran, al suo predecessore Fitzgerald, all’arcivescovo di Rabat, Cristóbal López Romero ne sono prova evidente. Ancora, al sottosegretario del dicastero per la Promozione dello sviluppo umano integrale, il gesuita canadese Michael Czerny, all’arcivescovo di Bologna Matteo Zuppi, che per ironia sarà l’unico romano di Roma all’interno del collegio cardinalizio. Mettendo in fila, l’uno dopo l’altro, i nomi dei prescelti, si ha un abstract del programma che il Papa vuole perseguire per rendere davvero irreversibile il cambiamento. Su 128 cardinali elettori dopo il concistoro del 5 ottobre, 67 saranno di nomina bergogliana. E’ la maggioranza assoluta, che non basta per blindare la scelta del successore – la storia della chiesa dimostra che raramente i desiderata di un Pontefice riguardo chi dovrà occupare il suo posto hanno trovato soddisfazione – ma che puntella una linea precisa che si dovrà perseguire. Identificare l’eletto è un giochetto buono per i periodi di sede vacante, quando il pallottoliere del “papabile” viene spolverato e offerto alla pubblica curiosità e morbosità. Capire l’orientamento è più semplice, specie se la maggioranza dei porporati condivide un idem sentire sui grandi temi di fondo. Ed è qui che Francesco ha lavorato, e parecchio. Tornare indietro come se nulla fosse accaduto in questi sei anni mezzo sarà impossibile e la conformazione che sta assumendo il collegio è ormai in linea con l’agenda di Francesco. Non è sempre accaduto così, anzi. Benedetto XVI, ma anche il suo predecessore Giovanni Paolo II, hanno ceduto sovente alla tradizione delle cosiddette sedi cardinalizie, “premiando” anche pastori non proprio sintonizzati sulla stessa frequenza. S’è già detto del concistoro del 2010, quando entrarono insieme Reinhard Marx e Raymond Leo Burke, ma analogo discorso si potrebbe fare con altri porporati di certo non di manifesto stampo ratzingeriano. Francesco ha scelto un’altra strada, opposta: fuori i potenziali oppositori, dentro quanti hanno dimostrato di facilitare la messa in pratica, a ogni latitudine del globo, il programma imperniato sul modello dell’ospedale da campo.

 

Nessuno al mondo sa chi sarà il prossimo Pontefice, ma il terreno per tracciarne l’identikit è già delineato. Basta osservare il collegio

Al di là delle consuete polemiche, che puntualmente a ogni concistoro si levano tra gli esperti del settore, tra chi segnala le assenze e le sorprese, è indicativa la decisione di creare cardinale il gesuita Jean-Claude Höllerich, arcivescovo di Lussemburgo, che a conferma di quanto detto prima nella sua prima dichiarazione dopo l’annuncio papale ha auspicato che “l’Europa si apra al mondo”. Qualche mese fa, prima delle ultime elezioni europee, Höllerich – che è anche presidente della Commissione delle conferenze episcopali europee – scrisse per la Civiltà Cattolica un saggio in cui osservava che “le paure nell’Europa dei nostri giorni sono molteplici e, ben mescolate, conducono, con l’ascesa dei populismi, a una destabilizzazione delle nostre democrazie e a un indebolimento dell’Unione europea”. Deprecava, il vescovo lussemburghese, i populismi che “vogliono allontanare i problemi reali, organizzando danze intorno a un vitello d’oro. Essi costruiscono una falsa identità, denunciando nemici che sono accusati di tutti i mali della società: ad esempio, i migranti o l’Unione europea”. Steve Bannon e Aleksandr Dugin sono i “sacerdoti di tali populismi che evocano una falsa realtà pseudo-religiosa e pseudo-mistica”. Uno scritto che divise in modo veemente chi concordava con il vescovo e chi gli imputava di aver assunto una determinata impostazione ideologica. A quanto pare, il modus pensandi di Bergoglio non è troppo lontano dal suo, se è vero che è giunta l’inaspettata porpora.

 

Si è detto e scritto molto – a sproposito – sul fatto che Francesco parlerebbe poco dell’Europa, che per nulla sarebbe al centro del suo pensiero e del suo agire, avendo altre priorità anche geografiche. La creazione di mons. Hollerich è la dimostrazione evidente di quanto errata fosse la supposizione. Bergoglio un’idea di Europa ce l’ha ed è fortemente critica nei riguardi dell’evoluzione del processo d’integrazione sviluppatosi negli ultimi decenni. “Che ti è successo, Europa?”, domandava retoricamente nel discorso con cui accettava il Premio Carlo Magno, nel maggio di tre anni fa, dopo essere andato a Lampedusa e a Lesbo. Era il rimpianto per la mancanza di leadership forte, per la perdita valoriale che ha sostituito i princìpi resi immortali da Robert Schuman con un monstrum burocratico che vorrebbe tutto uniformare in nome d’una falsa idea d’uguaglianza.

  • Matteo Matzuzzi
  • Friulsardo, è nato nel 1986. Laureato in politica internazionale e diplomazia a Padova con tesi su turchi e americani, è stato arbitro di calcio. Al Foglio dal 2011, si occupa di Chiesa, Papi, religioni e libri. Scrittore prediletto: Joseph Roth (ma va bene qualunque cosa relativa alla finis Austriae). È caporedattore dal 2020.