Padre Pedro Opeka nel cimitero nel distretto di Akamasoa ad Antananarivo, il 1 novembre 2018 (foto Marco Longari, LaPresse)

Il missionario nello slum del Madagascar. “Dio ci ha dato la libertà di fare il bene. Poi tocca a noi”

Papa Francesco da ieri in Africa per la quarta volta. Forse incontrerà padre Opeka: “La scristianizzazione? Qui abbiamo costruito la nostra chiesa scavando il granito”

“Se Dio esiste, ci dev’essere un luogo per aiutare i poveri su questa terra”. Padre Pedro Paolo Opeka, missionario vincenziano, ha scelto una città-discarica, uno slum tra i più grandi e purulenti al mondo, ad Antananarivo, la capitale del Madagascar. Aveva imparato da ragazzino a lavorare la pietra, dal padre carpentiere, emigrato in Argentina dopo la fuga dalla dittatura comunista nella sua Slovenia. Da falegname ha insegnato a costruire case, e le case sono diventate villaggi, per dare un luogo, un lavoro e una comunità a tanti disperati. Dalle case alle scuole, agli ospedali, ai laboratori: un’economia che accoglie oltre 25.000 persone. È uno dei progetti più rivoluzionari e produttivi che la società civile abbia realizzato nella grande isola sudafricana. E che è valso a questo prete, nato nel 1948, il riconoscimento della Legion d’onore, la massima onorificenza francese. Ma non è una coccarda che gli interessi, a meno che serva a dare visibilità e sostegno ai suoi poveri.

 

(foto Marco Longari, LaPresse)


  

Pedro Paolo Opeka: con due nomi così, più che il missionario delle genti non poteva fare. Un sacerdote argentino che da vent’anni vive in Madagascar. Un capopopolo, un rebelde, un folle di Dio.

Sono diventato missionario perché, leggendo i Vangeli, ho visto che Cristo è stato il primo evangelizzatore: e io volevo imitarlo, ovunque sia necessario.

 

Lei vive nella baraccopoli della capitale, Antananarivo, un girone infernale, dove la gente muore per un pezzo di ferro, per l’immondizia. Perché proprio lì?

Non è stato così facile approdarvi. Lavoravo nel sud-est dell’isola come insegnante, e me ne volevo andare. Mi sentivo un po’ ribelle dal punto di vista spirituale, non riuscivo a rientrare in nessun modello. Il Vangelo è vita, non ha confini e limiti. E’ la forza dello spirito di Dio. Quando la mia congregazione mi ha chiesto di diventare il rettore di un seminario, sono partito per la capitale. E lì, mi sono imbattuto in quest’immagine di migliaia di bambini su cumuli d’immondizia. Vederli vivere lì, litigare con gli animali, disputarsi brandelli di rifiuti per cibarsi, mi ha sconvolto. Non sono più riuscito a parlare. Sono caduto in ginocchio e ho pregato il Signore perché mi aiutasse a fare qualcosa con i suoi bambini.

 

Non si è arrabbiato con Dio, che permetteva tutto ciò?

No, mi sono arrabbiato con i miei fratelli uomini, perché Dio ci ha dato un cuore, la volontà, la libertà di fare il bene e impegnarci a fare giustizia e creare fraternità. Se non lo facciamo, dobbiamo incolpare il nostro egoismo, non Dio. La povertà non è sfortuna, ma ingiustizia. La povertà non è frutto di una casualità: c’è sempre qualcuno che sfrutta, e c’è chi non crede nei propri talenti. La vita rappresenta una sfida, mai un’abitudine.

A quelle persone lei ha detto che potevano farcela da sole. Oggi intorno alla discarica di Antananarivo e in altri luoghi del Madagascar sono nati villaggi, perché lei ha insegnato alla gente del luogo a estrarre la sabbia dalla montagna e a costruire mattoni, e poi le case, i mobili, i tappeti, le luci, gli ospedali, i negozi, i campi sportivi. Un luogo vivibile e soprattutto bello nella semplicità. Davvero avete fatto tutto da soli?

Abbiamo cominciato senza soldi, che sono venuti dopo. Avevamo la passione, la fede, la convinzione che Dio non abbandona mai i più poveri, soprattutto i bambini, che sono innocenti, nell’estrema povertà. Abbiamo coinvolto i genitori: “Amate i vostri figli?”, ho chiesto loro. Certo che sì, mi hanno risposto. “E allora andiamo a lavorare. Aiuteremo i bambini a frequentare una scuola e per poter vivere insieme cercheremo una legge comune”. Tutti hanno detto sì al lavoro, alla scuola, a una legge comune e alla disciplina. Sono 25.000 le persone che oggi appartengono a questo progetto chiamato Akamasoa, che significa “buoni amici”. Ma sono molti di più tutti i poveri che accorrono: ne abbiamo contato oltre 500.000 in 25 anni. Nessuno è stato cacciato da Akamasoa. Mai abbiamo detto a una madre che non c’era posto, oppure che sarebbe dovuta ripassare. Abbiamo sempre accolto tutti: se crediamo in Dio, crediamo nell’amore, e se Dio esiste, c’è un luogo per aiutare i poveri su questa terra. E io ne sono il servo, il primo operaio. Mi alzo la mattina alle 5 e comincio a lavorare. Bisogna dare l’esempio per convincere le persone e per dare loro fiducia. Senza la fiducia dei miei fratelli poveri non si arriva lontano. Lei intercetta i poveri con tre parole: lavoro, educazione e disciplina. Non sono parole semplici: sulla disciplina si può non essere d’accordo. Quando chiedi e pretendi senza dare l’esempio, si tratta solamente di buoni consigli. Il mondo è pieno di persone anche importanti che parlano bene ma non fanno quel che dicono. Se in Madagascar in una discarica la gente mi ha seguito, ciò è accaduto perché si è visto che vivevo quello che chiedevo, insieme con loro. E io sono un bianco in Madagascar. Ma nelle discariche non esistono bianchi e neri, soltanto fratelli, perché sentiamo il fuoco dei figli di Dio che sono uguali tra loro.

 

Eppure, lei ha detto e scritto che i poveri non sono tutti buoni. C’è chi ruba, chi delinque: e chi, forse, non lo farebbe in quelle condizioni? Lei tuttavia ripete che a tutti è chiesto di scegliere tra il bene e il male.

Bisogna sapere che il male esiste, ma il bene è più forte. Viviamo di speranza. Quando si vive nell’estrema povertà si può pensare che per sopravvivere si debba rubare, ingannare, delinquere. Ma io spiego che si può vivere da fratelli: con la menzogna e il male non si costruisce una società diversa, quella che tutti sogniamo. Alcuni mi hanno creduto e hanno cambiato vita; altri hanno continuato a mentire, e se ne sono andati. Sono contento che Papa Francesco insista tanto sul condividere, sull’aiutare, perché l’economia sia umana. Non deve essere soltanto basata sul profitto, sul guadagno, ma essere al servizio dell’uomo. E si può fare, lo stiamo vivendo con migliaia di persone. Quel che si può fare con mille lo si può fare con un milione.

  

Lei è strappato spesso dal Madagascar, gira l’Europa per raccontare la storia di Akamasoa.

Mi ascoltano, forse capiscono che c’è chi parla perché ha un vocabolario, un talento per convertire le persone; mentre io voglio unicamente condividere un’esperienza. Convertire non dipende da me. La conversione scaturisce dal rapporto di ciascuno con l’amore di Dio. Posso aiutare a entrare nel cammino della ricerca, ma soltanto la grazia di Dio converte. Posso battezzare i bambini, pregare insieme la domenica, così facevano gli apostoli: abbiamo cominciato con 40 poveri e oggi sono 10.000, che partecipano alla festa di Dio. La nostra messa dura tre ore con migliaia di persone, e i turisti che passano di lì neanche si rendono conto del tempo che passa.

 

(foto Marco Longari, LaPresse)


  

Avete costruito la chiesa più grande nella cava di pietra da cui tutto è nato. La chiesa costruita sulla roccia: una scelta anche simbolica.

Noi la chiamiamo “la cattedrale”, perché le cattedrali in Europa sono nate dalla terra, e noi abbiamo scavato il granito. Uno sforzo enorme di uomini e donne che hanno scavato e portato sulla testa migliaia di tonnellate di granito. Donne da scrivere con la “D” maiuscola, perché sono vere signore! Il popolo del Madagascar ha un talento speciale. Sa ridere, ma si può ridere senza essere felici. Ad Akamasoa, invece, i bambini ridono perché sono felici. Siamo un paese con ricchezze grandi, che resta povero per la corruzione dei suoi governanti. Quanti potenti d’Africa mentono al popolo! Bisogna ribellarsi, non con la violenza, ma con il cuore, e con la giustizia, che sovrasta la legge. Spesso le leggi sono fatte per i ricchi, e i poveri continuano a soffrire. Non inganniamoci: non sempre la gente ride ed è felice. I miei amici sì, lo sono. I governanti in Africa non hanno paura dei missionari, che sono gente buona. Voglio rendere onore a tutti i missionari che lavorano nei boschi, nelle foreste e nei villaggi che tengono desta la speranza del popolo finché un giorno arrivi la giustizia, il lavoro. Senza di loro, l’Africa sarebbe ancora peggiore.

  

   

Quando si lotta contro l’ingiustizia e la corruzione si hanno pochi amici. “Io sono solo”, ha scritto.

Gesù aveva dodici apostoli, uno l’ha tradito e gli altri sono scappati. Pietro ha detto di non riconoscerlo. Quando si dà la vita per il Vangelo, spesso si rimane soli. Penso che anche il Papa qualche volta lo sia.

  

E che dice delle lamentazioni, giustificabili, della scristianizzazione, della crisi delle vocazioni?

Quando viviamo il Vangelo con gioia non dobbiamo parlare di crisi. Andiamo in crisi quando facciamo della filosofia sulla fede. Quando discutiamo per il gusto di discutere. Quando si lavora con i poveri, non se ne ha il tempo. Si vive circondati da persone che hanno bisogno del nostro aiuto, della nostra mano. Quando sono stato ordinato sacerdote, mi sentivo a 3000 metri d’altezza. Dopo tre anni, ho toccato terra, e che terra! Con i poveri, in questa terra, ci siamo rialzati, insieme. Ero con loro con la malattia, i dubbi, la miseria. E la divina Provvidenza mi ha unito a questa gente, perché tornassimo a volare alto.

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