“La crisi dell'Europa è anche figlia dell'egemonia del pensiero anticristiano”

Matteo Matzuzzi

Il vescovo di Ventimiglia, monsignor Suetta: “Solo la politica può superare la contrapposizione tra élite e popolo” 

Roma. Diceva Churchill che “qui in Europa c’è la fonte della fede cristiana e dell’etica cristiana. Qui è l’origine di gran parte delle culture, delle arti, della filosofia e della scienza, nell’antichità come nei tempi moderni”. Prende spunto da tale considerazione il messaggio del vescovo di Ventimiglia-San Remo, mons. Antonio Suetta, in vista delle ormai imminenti elezioni europee. Tenere bene a mente Churchill, dunque, ma anche le parole dell’allora cardinale Joseph Ratzinger, secondo cui “i valori umani fondamentali per la visione cristiana del mondo rendono possibile, in un dualismo fruttuoso di stato e chiesa, la libera società umana, nella quale è assicurato il diritto alla libertà di coscienza e con esso i diritti fondamentali dell’uomo”. Propositi encomiabili che si scontrano però con una realtà un po’ diversa, prodotto di anni in cui “abbiamo registrato – dice il vescovo – una tendenza culturale volta a cancellare, nascondere e ridimensionare la matrice cristiana dell’Europa. Un pensiero anticristiano si è affermato come egemone, in nome di una singolare tolleranza interreligiosa e di una malintesa laicità”. Ecco allora che torna la domanda di Papa Francesco: “Che cosa ti è successo, Europa?”. Lo chiediamo direttamente a mons. Suetta, mentre raggiunge Roma per l’Assemblea generale della Cei. E’ la storia di un rinnegamento, “purtroppo già affermato in parte. C’è un fattore diretto e più noto, e cioè la volontà di escludere il riconoscimento delle radici giudaico-cristiane dell’Europa. Però c’è anche un altro fattore più vasto dal quale siamo meno consapevoli e del quale dobbiamo stare in guardia: è l’effetto collaterale della globalizzazione”.

 

“Io – dice mons. Antonio Suetta – non voglio demonizzarla però ritengo che la globalizzazione abbia promosso un certo modo dell’uomo di percepire se stesso e questo può avere avuto sì una serie di ripercussioni molto positive, ma penso altresì che questo fenomeno sia stato eccessivamente sbilanciato sul versante economico-finanziario che naturalmente ha tra le sue spinte propulsive maggiori quella del profitto e della speculazione. E’ chiaro allora che se il mondo articolato nelle sue potenzialità lo si lascia governare soltanto da una parte che ha interessi spinti, il risultato è molto problematico. Recuperare le radici cristiane dell’Europa e riscoprire la bimillenaria civiltà europea significa recuperare questo sbilanciamento”.

 

Giovanni Paolo II parlava di Europa dei popoli, definizione oggi abusata e svalutata. “La polemica – dice il vescovo – non aiuta a comprendere le situazioni e i termini nella loro giusta accezione. Oggi purtroppo quando si parla di popolo sembra quasi di scadere in qualcosa di negativo. In realtà, il popolo rappresenta una ricchezza. Pensiamo alla differenza che c’è tra frontiera e confine. Frontiera evoca immediatamente una contrapposizione: chi sta di qui e chi sta di là. Mentre confine è una parola molto bella, c’è la condivisione (con) e i limiti (finis). In ogni realtà che si qualifichi con la propria identità ci sono ricchezze ma anche limiti. Confine è il punto di contatto in cui si condividono peculiarità, risorse ma anche limiti. E’ la scoperta di avere bisogno dell’altro”.

 

Oggi siamo dinnanzi al tentativo di “creare cittadini europei che non si sentano più né cristiani né italiani né francesi né padri né madri né maschi né femmine. Un qualcosa di neutro e indistinto”. “Le leggi sull’eutanasia e sull’aborto nonché tutta la questione delle rivendicazioni gender hanno mostrato il limite e la pericolosità di questo pensiero”, ha scritto il vescovo, aggiungendo che “è bene precisare che la chiesa non difende tali valori per tradizionalismo o per tutelare una posizione di dominanza etica, ma perché si trovano dentro una prospettiva di promozione autentica dell’uomo”.

 

Chi è il cittadino europeo? “E’ quello che si sente radicato in una storia che ha alcuni riferimenti essenziali, primo fra tutti la storia del proprio popolo. Non deve cancellare le proprie tipicità ma allo stesso tempo non deve rimanerne prigioniero. E non deve chiudersi all’accoglienza. Questo è l’equilibrio difficile da raggiungere: l’affermazione della fedeltà alle proprie radici e alla propria storia non esclude l’accoglienza, ma la regola. Dobbiamo dialogare, ma senza il rischio di perdere noi stessi. Capisco ci possano essere situazioni contingenti come la richiesta di forza-lavoro che possano rendere anche auspicabile l’immigrazione – io lo trovo un po’ riduttivo, perché non possiamo parlare di accoglienza solo quando abbiamo bisogno di qualcosa, e lo stesso vale anche per il calo demografico: è molto banale dire che siccome non facciamo figli, dobbiamo prendere la manodopera da fuori. Ci deve essere un reciproco apporto tra diverse culture e questo va fatto in una convivenza pacifica. E’ un discorso di grande valore che non viene messo in discussione dal fatto che chi accoglie sia geloso della propria identità. Anzi: per dare il risultato di una società nuova – che sappia cioè valorizzare e sfruttare al meglio le risorse messe a disposizione dalla globalizzazione – mi pare che questa sia la strada migliore”. E per quanto riguarda il multiculturalismo, altro capo d’imputazione all’Europa? “E’ un dato di fatto, da sempre”, osserva mons. Antonio Suetta: “L’umanità sulla faccia della terra è composita e variegata. Siamo oggi davanti all’esasperazione dell’idea di multiculturalismo, alla volontà di cancellare ogni differenza e peculiarità. E questo falsa il disegno, perché andrebbe a distruggere il fatto che l’umanità è composita”.

 

L’occidente e la vergogna di sé

Uno dei temi all’ordine del giorno è la contrapposizione tra élite e popolo. A giudizio del vescovo di Ventimiglia-San Remo, “solo la politica può superare questa contrapposizione. La disaffezione è dovuta sì al comportamento di qualche esponente politico, ma dipende anche dal fatto che il concetto e l’ambito di attività della politica si sono ridotti, come se fosse soltanto una questione gestionale troppo segnata e ferita dalla contrapposizione delle parti in gioco. Mentre, invece, la politica è la forma più alta della carità perché si colloca sulla scena umana come luogo di discernimento e luogo operativo del bene comune. Non è soltanto una questione di decidere ‘cosa fare’. La questione del bene comune impone una riflessione sull’identità dell’uomo, sul suo destino, sulle sue esigenze. La politica deve avere questo sguardo completo: tornare alla passione politica di questo tipo può far superare la contrapposizione tra il popolo e l’élite”.

 

Un’Europa “costruita sulla convinzione che dimensione religiosa e identità vadano cancellate, che l’anima dell’Europa sia non avere un’anima, è un’Europa destinata a dissolversi”, ha scritto il vescovo nel suo documento, aggiungendo che “la scomparsa della giusta autostima europea è associata a uno ‘strano’ rifiuto di sé dell’occidente, che si può qualificare come patologico: da una parte esso si mostra completamente aperto a ciò che gli è estraneo mentre si rivela escluso e ostile a ciò che la propria storia ha di grande e di puro, evidenziando solo ciò che in essa ci sarebbe di deprecabile e di distruttivo”. L’occidente si vergogna della propria storia? “No. La società occidentale subisce uno smarrimento, un’incapacità di far sì che i valori disseminati qua e là siano visti e riconosciuti. Se penso alle cause, sono sicuro che c’entri parecchio quello che oggi chiamiamo pensiero dominante, la cultura egemone”.

  • Matteo Matzuzzi
  • Friulsardo, è nato nel 1986. Laureato in politica internazionale e diplomazia a Padova con tesi su turchi e americani, è stato arbitro di calcio. Al Foglio dal 2011, si occupa di Chiesa, Papi, religioni e libri. Scrittore prediletto: Joseph Roth (ma va bene qualunque cosa relativa alla finis Austriae). È caporedattore dal 2020.