Wilton Gregory, 71 anni, è stato nominato arcivescovo metropolita di Washington (foto LaPresse)

La restaurazione americana di Papa Francesco

Matteo Matzuzzi

Il nuovo vescovo di Washington è l’ultima sferzata del Pontefice a una chiesa ancora nostalgica della culture war

La variegata costellazione americana di siti, blog e pagine Facebook d’orientamento pro life e conservatore è insorta già nelle ore che hanno preceduto l’annuncio ufficiale relativo alla nomina di monsignor Wilton Gregory ad arcivescovo metropolita di Washington. Proprio lui?, si domandavano sconcertati gli increduli, che fino all’ultimo avevano sperato in qualcosa di nuovo, che poi in realtà sarebbe stato un ritorno al passato, all’èra pre bergogliana. Invece, al chiacchierato cardinale Donald Wuerl, accusato di aver fatto finire sotto il tappeto denunce di abusi di preti su minori quand’era vescovo di Pittsburgh, succede un presule che più d’ogni altro negli Stati Uniti rappresenta l’immagine di quel che vuole il Papa per quella chiesa così potente ma riottosa ad adeguarsi alle mutate priorità, in gran parte ancora nostalgica dell’arroccamento dietro i fortini innalzati a difesa della propria peculiarità. Proprio lui, dunque. Un afroamericano – ma non ci si dilungherà in prosopopea retorica, cercando agganci con l’attualità, magari con un messaggio contro muri e pro migranti, che ben poco c’entrano in questo contesto – di settantuno anni che avrà un orizzonte limitato davanti a sé per condurre la diocesi della Casa Bianca fuori dai marosi che la stanno investendo. “L’unico elemento che non mi fa esultare del tutto per la nomina è l’età”, ha detto padre Thomas Reese, già direttore di America magazine, la rivista liberal dei gesuiti della East coast. “Chissà se tra quattro anni Papa Francesco sarà ancora in giro”, ha aggiunto.

 

Monsignor Wilton Gregory è uno dei presuli più liberal del paese. Sotto choc gli attivisti pro life: “Proprio lui?”

E’ un’insurrezione poco motivata, almeno quanto poco motivata è la sorpresa per il profilo scelto. Sarebbe bastato rileggere con attenzione quel che il Papa disse quando visitò gli Stati Uniti, ormai tre anni e mezzo fa. Uno dei viaggi più importanti del pontificato, messo mediaticamente un po’ in sordina dalle photo opportunity a Cuba, tappa iniziale della trasferta al di là dell’Atlantico. Anche sul volto dei giornalisti che seguono abitualmente il Papa, quella mattina di settembre a Washington era visibile l’impressione che avevano fatto le parole di Francesco pronunciate davanti ai vescovi della nazione riuniti nella cattedrale di San Matteo.

 

Francesco ribaltava l’agenda fin lì seguita, stabiliva nuove priorità, esortava a uscire dai bunker ormai sguarniti e malridotti, predicava di usare più il cuore che i muscoli. “Senz’altro è utile al vescovo possedere la lungimiranza del leader e la scaltrezza dell’amministratore, ma decadiamo inesorabilmente quando scambiamo la potenza della forza con la forza dell’impotenza, attraverso la quale Dio ci ha redenti. Al vescovo è necessaria la lucida percezione della battaglia tra la luce e le tenebre che si combatte in questo mondo. Guai a noi, però, se facciamo della Croce un vessillo di lotte mondane, dimenticando che la condizione della vittoria duratura è lasciarsi trafiggere e svuotare di se stessi”, disse allora. “So bene che numerose sono le vostre sfide, e che spesso è ostile il campo nel quale seminate, e non poche sono le tentazioni di chiudersi nel recinto delle paure, a leccarsi le ferite, rimpiangendo un tempo che non torna e preparando risposte dure alle già aspre resistenze”, aggiunse, esortando così i presuli seduti davanti a lui: “Non abbiate paura di compiere l’esodo necessario ad ogni autentico dialogo. Altrimenti non è possibile comprendere le ragioni dell’altro né capire fino in fondo che il fratello da raggiungere e riscattare, con la forza e la prossimità dell’amore, conta più di quanto contano le posizioni che giudichiamo lontane dalle nostre pur autentiche certezze. Il linguaggio aspro e bellicoso della divisione non si addice alle labbra del pastore, non ha diritto di cittadinanza nel suo cuore e, benché sembri per un momento assicurare un’apparente egemonia, solo il fascino durevole della bontà e dell’amore resta veramente convincente”.

 

Tutto molto chiaro, netto, si direbbe quasi in perfetto stile evangelico Sì sì, No no. Tre anni e mezzo dopo, il messaggio resta lo stesso. Il problema è che nel frattempo la chiesa americana poco ha fatto per recepirlo e metterlo in pratica. Ogni qualvolta i vescovi sono stati chiamati a esprimersi col voto, hanno sistematicamente bocciato le linee più vicine a quell’appello risuonato nella cattedrale della capitale. I più vicini a Francesco, come l’arcivescovo di Chicago Blase Cupich e quello di Newark Joseph Tobin, hanno un seguito irrisorio tra i confratelli. Non è maldicenza, ma la realtà: è sufficiente dare un’occhiata ai voti che i due hanno ottenuto ogni qualvolta la conferenza è stata chiamare a votare per eleggere vescovi a uffici di responsabilità. E questo nonostante la porpora che il Papa ha loro messo sul capo, scartando invece i vari José Gómez (Los Angeles) e Charles Chaput (Philadelphia), titolari di sedi tradizionalmente cardinalizie ma protagonisti del vecchio corso, della cosiddetta “ala destra”.

 

Mons. Wilton Gregory non è di certo un parvenu, un vescovo preso chissà dove e messo nella diocesi politicamente più prestigiosa del paese. E’ uno che la macchina la conosce molto bene, essendo stato presidente della Conferenza episcopale tra il 2001 e il 2004, affrontando le pene di Spotlight e la caccia ai preti pedofili e ai cardinali loro protettori. Conosce gli ingranaggi, le tendenze, gli umori dei vescovi ancora in qualche modo aggrappati all’idea che il

Il discorso del Papa ai presuli americani del 2015, uno dei più importanti del pontificato, è stato dimenticato troppo in fretta

pontificato bergogliano sia una parentesi che prima o poi passerà, ripristinando uno status quo ante. Gregory serve a scongiurare questo, ben consapevole che i cambiamenti generali ci mettono anni prima di dare frutto. Si prenda l’epopea giovanpaolina, che prima di imprimere la sterzata decisiva all’orientamento della chiesa americana ci impiegò decenni. Joseph Bernardin, cardinale arcivescovo di Chicago e leader indiscusso dell’ala progressista locale, sarebbe morto nel 1996, da vescovo in carica. Fu sostituito da Francis George, padre del conservatorismo muscolare che ha contrassegnato la fine del secolo scorso e il primo decennio del nuovo, con tanti figli spirituali insediati nelle diocesi di maggior peso del paese (New York, Philadelphia, Baltimora, Los Angeles).

 

La diocesi di Washington è prestigiosa, ambita. Si fa lobby, si frequenta Capitol Hill, si è di casa alla Casa Bianca. Non a caso mons. Gregory ha voluto mettere le mani avanti, nella sua prima uscita pubblica in qualità di arcivescovo di Washington fresco di nomina: “Intendo parlare e promuovere l’insegnamento morale e dottrinale della chiesa, ma penso che il mio legame con i motori che corrono qui debba riflettersi attraverso questo prisma. Io qui sono un pastore, non sono stato eletto al Congresso”. Ha scritto il Catholic Herald che due sono le strade che il presule si troverà davanti: fare il vero riformatore esponendo al pubblico ludibrio tutta la rete degli amici di McCarrick o essere più discreto, proteggendo l’immagine pubblica della chiesa. Per ora ha fatto sapere ai fedeli che “vi dirò la verità”. Come si declinerà questo nobile proposito con la necessità di non spargere il sale sulle rovine della chiesa di Washington, solo il tempo lo potrà dire.

 

Secondo il professor Massimo Faggioli, storico e teologo alla Villanova University, il Vaticano conta su mons. Gregory per rimettere insieme i cocci delle relazioni con la Conferenza americana, che più di un colpo ha subìto nel complicato 2018. Il nuovo arcivescovo di Washington, per Faggioli, “ha un rapporto meno stretto con Francesco di quanto lo abbiano i cardinali Cupich e Tobin”. Ha però più energia di Sean O’Malley, arcivescovo di Boston, per farsi sentire all’interno della compagine episcopale.

 

Due opposte istanze restauratrici: quella che vuole un ritorno della linea progressista e quella del conservatorismo muscolare

Una scelta insomma tutt’altro che casuale. La frattura della quale parla Faggioli risale allo scorso novembre, quando alla vigilia dell’assemblea autunnale della Conferenza episcopale riunita a Baltimora, dal Vaticano giunse una lettera che ingiungeva ai vescovi americani di astenersi dall’approvare le linee-guida per contrastare gli abusi di membri del clero su minori. Il presidente, il cardinale Daniel DiNardo, nascondeva male il proprio imbarazzo davanti a quella che ottanta presuli leggevano come un’indebita intromissione vaticana. Roma chiedeva di non decidere nulla, in attesa del vertice di febbraio “sulla protezione dei minori nella chiesa” convocato dal Papa e aperto a tutti i presidenti delle conferenze episcopali del pianeta. Il cardinale Marc Ouellet, prefetto della congregazione per i Vescovi, suggeriva di evitare il voto ma di procedere con la discussione, ribadendo che comunque mancava poco alla réunion vaticana. Oltre alla scadenza ravvicinata con il vertice romano, un ulteriore elemento di conflitto riguardava le linee-guida elaborate dalla presidenza, che miravano a istituire una sorta di commissione indipendente laica per far luce sulle denunce. Un piano avversato tra gli altri dai cardinali Cupich e Wuerl, che invece miravano a riportare le indagini sotto l’autorità dell’arcivescovo metropolitano. Insomma, se quindici anni fa vi fossero state dicerie sul comportamento del vescovo della diocesi suffraganea di Washington, a farsi carico dell’indagine sarebbe stato il cardinale Thedore McCarrick. Su di lui, invece, avrebbero istruito la “causa” alcuni vescovi “anziani”. Una soluzione che appare del tutto autoreferenziale e molto legata a quel clericalismo che il Papa avversa più d’ogni altra cosa. Ma che è il sintomo più evidente di una lotta furibonda che coinvolge anche il Vaticano e che deciderà se la chiesa americana capitolerà o se manterrà una sorta di “autonomia” in attesa che la buriana bergogliana passi. Il ricambio dei vescovi è in corso, ma sono operazioni lunghe. Le culture war sono finite da un decennio – e non sono finite bene, come dimostra la presidenza obamiana – ma i suoi princìpi attivi sono ancora ben diffusi tra i vertici della conferenza episcopale, che ogni triennio si rinnova ribadendo quella linea: George, Dolan, Kurz, DiNardo. E poi, forse, Gómez, attuale vicepresidente. Si capisce allora quanto scriveva Faggioli, che ora con Gregory a Washington anche i rapporti di forza interni potrebbero cambiare – anche considerata l’assenza del presidente, il cardinale Di Nardo, colpito da un leggero ictus il mese scorso.

 

La frattura con il Vaticano risale a novembre, quando Roma bloccò le linee-guida sugli abusi proposte dalla Conferenza episcopale locale

E’ allora fuorviante parlare di intenti rivoluzionari, quasi che la nomina di mons. Gregory fosse un coup d’état volto a scardinare un sistema per sostituirlo con un qualcosa di nuovo. Semmai, si tratterebbe di una restaurazione, di un ritorno a quel che c’era prima dell’avvento dei “conservatori muscolari”, a episcopati votati al sociale più che alle lotte in campo bioetico e agli scontri in piazza su questioni politiche legate al matrimonio o all’aborto. Un ritorno all’èra Bernardin e dei Quinn, insomma. Si fronteggiano dunque due opposte tendenze restauratrici: la prima di chi vuole una chiesa americana trasformata in ospedale da campo sull’onda del pontificato di Francesco, la seconda di chi vorrebbe chiudere in fretta la parentesi degli ultimi sei anni per tornare allo spirito battagliero. Una terza strada non c’è. Ed è qui che si pone l’immane difficoltà del Papa di far passare la propria linea, chiaramente spiegata nella Evangelii gaudium, il programma del pontificato. Qualche osservatore, tempo fa, ha scritto che è proprio l’America lo scoglio sul quale rischia d’infrangersi l’agenda di Francesco, determinando il bilancio del pontificato. Ma più che il Papa, andrebbe considerato che quella in corso è una lotta prima di tutto intestina, tra pochi tentativi di mediazione e molte rese dei conti sempre rimandate. In una chiesa che è minoranza e che si sente minacciata, accade questo. Una chiesa guardinga, che teme l’uscita perché non sa cosa si troverà davanti una volta abbandonati i porti sicuri.

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  • Matteo Matzuzzi
  • Friulsardo, è nato nel 1986. Laureato in politica internazionale e diplomazia a Padova con tesi su turchi e americani, è stato arbitro di calcio. Al Foglio dal 2011, si occupa di Chiesa, Papi, religioni e libri. Scrittore prediletto: Joseph Roth (ma va bene qualunque cosa relativa alla finis Austriae). È caporedattore dal 2020.