Arthur Hacker, “La tentazione di Sir Percival”, 1894 (Leeds Art Gallery)

L'altro Dio della tentazione

Matteo Matzuzzi

Cambia, per colpa di un verbo greco, la traduzione della preghiera del Padre Nostro. Una svolta con tante resistenze respinte dal Papa: “Un padre non butta giù il figlio, ma lo aiuta a rialzarsi”

“Ed ecco la formula prima e somma, per antonomasia, del nostro colloquio con Dio, quale Cristo, ci ha insegnata: il Padre nostro. Essa è l’espressione più semplice, più felice, più profonda della nostra religione. Tutti lo sappiamo”. (Paolo VI)

 

Il problema è tutto in un verbo, il greco eisferein. Da più di vent’anni (quasi trenta, a dire la verità) teologi e biblisti si interrogano sulla traduzione di questa parola, che in latino è inducere. Ma l’inducere latino non è l’indurre italiano, ammoniva ancora l’anno scorso il cardinale Giuseppe Betori, che ricorda bene quando nell’anno 2000 – pare l’altro ieri, ma sono passati diciotto anni – Giacomo Biffi e Carlo Maria Martini convennero sul fatto che inducere non è indurre. O meglio, non significa solo indurre.

 

Il Padre nostro, l’unica preghiera che Gesù insegna in tutto il Vangelo, cambierà. Non domani, ma presto. I vescovi riuniti in assemblea generale, qualche giorno fa, hanno approvato la nuova traduzione: “Non abbandonarci alla tentazione” anziché “non ci indurre in tentazione”. Tema antichissimo, visto che già nei primi secoli circolava una versione latina diversa da quella che poi si sarebbe affermata con la Vulgata di san Girolamo: “Et ne passus nos fueris induci in tentationem”, cioè “non permetterci di essere indotti in tentazione”. Più di recente, la questione si è riproposta con le prime due traduzioni del Messale effettuate negli anni Settanta, epoca di immediato post Concilio. In Francia si sono già portati avanti, e il ne nos inducas è lì tradotto con “ne nous laisse pas entrer en tentation”, non lasciarci entrare in tentazione. Limitativo, secondo gli esperti della Cei: “Noi abbiamo scelto una traduzione volutamente più ampia. ‘Non abbandonarci alla tentazione’ può significare ‘non abbandonarci affinché non cadiamo nella tentazione’, ma anche ‘non abbandonarci alla tentazione quando siamo già nella tentazione’”, spiegava sempre Betori un anno fa ad Avvenire.

 

I dubbi sulla traduzione già nei primi secoli, poi la Vulgata di san Girolamo chiuse la discussione. L’interpretazione di sant’Ambrogio

La richiesta di portare a compimento i lavori di studio era arrivata – in modo implicito, ma chiaro – dal Papa in persona. “Non ci indurre in tentazione non è una buona traduzione. Anche i francesi hanno cambiato il testo con una traduzione che dice ‘non lasciarmi cadere nella tentazione’, sono io a cadere, non è lui che mi butta nella tentazione per poi vedere come sono caduto, un padre non fa questo, un padre aiuta ad alzarsi subito”, aveva spiegato Francesco conversando con don Marco Pozza, cappellano del carcere di Padova. Accusare il Papa regnante per la novità sarebbe però del tutto sbagliato, oltreché strumentale. La traduzione rivista, infatti, compare già nella Bibbia edita nel 2008 e il Pontefice, dieci anni fa, era Benedetto XVI. Il problema, però, resta perché le cose non sono così semplici, soprattutto se di mezzo c’è la preghiera più conosciuta e recitata dai cristiani, da sempre. Paolo VI usò il passo “incriminato” nel brevissimo e drammatico Angelus del 24 novembre 1963, recitato pochi giorni dopo l’assassinio del presidente americano John Fitzgerald Kennedy: “Ecco: preghiamo come Gesù ci ha insegnato: non ci indurre in tentazione, ma liberaci dal male. E così sia”.

Ora, appena ricevuta notizia della decisione (scontata) dei vescovi italiani, si è riaperta la ferita, assai simile a una guerricciola, tra quanti non disdegnano la riformulazione – più aderente alla realtà – e chi invece sorride notando che tutti questi problemi ci sono solo per chi prega in volgare e non nel latino chiarissimo e sempiterno.

 

Ma quanti saranno i cattolici che a messa pronunceranno le “nuove” parole? “E’ una disposizione del Pontefice e faremo quello che dice il Pontefice, che ha voluto ribadire un concetto importante, anche se probabilmente molti continueranno a recitare la vecchia formula. E cambierà poco perché, quando preghi, il tuo interlocutore è Dio”, ha detto al Secolo XIX padre Rinaldo Resecco, sacerdote ligure. Online ci sono carrellate di pareri raccolti tra sorridenti fedeli, molti dei quali intervistati in proposito al termine dell’Angelus domenicale in piazza San Pietro. La maggioranza, netta, è perplessa. Vince il partito del “si è sempre fatto così”. Detto in buona fede, sia chiaro. Ma Francesco contro i seguaci del “si è sempre fatto così” ha lanciato una delle sue più feroci e convinte battaglie fin da quando è stato eletto al Soglio petrino.

 

“Nel compito messianico di Gesù rientra il superare le grandi tentazioni che allontanano gli uomini da Dio”, ha scritto Benedetto XVI

Il catechismo della chiesa cattolica qualche parola in più la dice: “Noi chiediamo al Padre nostro di non indurci in essa [nella tentazione, ndr]. Tradurre con una sola parola il termine greco è difficile: significa ‘non permettere di entrare in’, ‘non lasciarci soccombere alla tentazione’”. “Dio non può essere tentato dal male e non tenta nessuno al male; al contrario, vuole liberarcene. Noi gli chiediamo di non lasciarci prendere la strada che conduce al peccato. Siamo impegnati nella lotta ‘tra la carne e lo Spirito’. Questa domanda implora lo Spirito di discernimento e fortezza”.

 

Giacomo Biffi, dando il proprio placet alla riformulazione di quel passaggio del Padre nostro – e trovandosi su questo incredibilmente d’accordo con Carlo Maria Martini, come s’è visto – non dava alcuna spiegazione “propria”, ma si rifaceva esclusivamente a sant’Ambrogio, che già nel IV secolo traduceva il ne nos inducas con “non permettere che cadiamo nella tentazione”. Lo si legge nel De sacramentis, testo attribuito proprio al vescovo patrono di Milano: “La preghiera recita così: e non permettere che siamo indotti in una tentazione che non possiamo sostenere. Non dice soltanto: ‘non indurci in tentazione’ ma, come un atleta, l’uomo prega che la prova che deve sostenere sia proporzionata alle sue forze e che sia liberato dal male, cioè dal peccato. Il Signore che ha cancellato il vostro peccato e perdonato i vostri errori, è pronto a proteggervi ed anche a custodirvi contro le insidie del demonio affinché non siate sorpresi dalle sue astuzie e non cadiate nel peccato. Chi ha fiducia in Dio non teme il demonio”. Un altro grande santo, Agostino, nel De Sermone Domini in Monte II, osservava però che “una cosa è essere indotto in tentazione, un’altra è essere tentati. Quindi con quella preghiera non si chiede di non essere tentati, ma di non essere immessi nella tentazione, sulla fattispecie di un tale, a cui è indispensabile essere sottoposto all’esperimento del fuoco, e non chiede di non essere toccato col fuoco, ma di non rimanere bruciato”.

 

Il Papa: “Non è una delle tante preghiere cristiane, ma è la preghiera dei figli di Dio. E’ la grande preghiera che ci ha insegnato Gesù”

E’ utile rifarsi a quanto scriveva nel suo Gesù di Nazaret Benedetto XVI. Parole che “sono di scandalo per molti: Dio non ci induce certo in tentazione! Di fatto – notava Joseph Ratzinger – san Giacomo afferma: ‘Nessuno quando è tentato, dica: Sono tentato da Dio, perché Dio non può essere tentato dal male e non tenta nessuno al male’. La tentazione viene dal diavolo, ma nel compito messianico di Gesù rientra il superare le grandi tentazioni che hanno allontanato e continuano ad allontanare gli uomini da Dio. Egli deve, come abbiamo visto, sperimentare su di sé queste tentazioni fino alla morte sulla croce e aprirci in questo modo la via della salvezza. Così, non solo dopo la morte, ma in essa e durante tutta la sua vita deve in certo qual modo ‘discendere negli inferi’, nel luogo delle nostre tentazioni e sconfitte, per prenderci per mano e portarci verso l’alto”.

 

Benedetto XVI va oltre, guarda a Giobbe, “in cui sotto tanti aspetti si delinea già il mistero di Cristo”. Il Libro di Giobbe, si legge sempre in Gesù di Nazaret, “può esserci d’aiuto nel discernimento tra prova e tentazione. Per maturare, per trovare davvero sempre più la strada che da una religiosità di facciata conduce a una profonda unione con la volontà di Dio, l’uomo ha bisogno della prova. Come il succo dell’uva deve fermentare per divenire vino di qualità, così l’uomo ha bisogno di purificazioni, di trasformazioni che per lui sono pericolose, che possono provocarne la caduta, che però costituiscono le vie indispensabili per giungere a se stessi e a Dio. L’amore – scriveva Ratzinger – è sempre un processo di purificazioni, di rinunce, di trasformazioni dolorose di noi stessi e così una via di maturazione”. Insomma, “nella preghiera che esprimiamo con la sesta domanda del Padre nostro deve così essere racchiusa, da un lato, la disponibilità a prendere su di noi il peso della prova commisurata alle nostre forze; dall’altro, appunto, la domanda che Dio non ci addossi più di quanto siamo in grado di sopportare; che non ci lasci cadere dalle sue mani”. Viene in soccorso san Paolo, che chiarisce bene di cosa si tratti: “Nessuna tentazione vi ha mai colti se non umana, e Dio è fedele e non permetterà che siate tentati oltre le forze, ma con la tentazione darà anche il mezzo di sopportarla”, si legge nella Prima lettera ai corinzi (10,13).

 

Sulla Civiltà cattolica si è espresso lo scorso febbraio con un lungo articolo Pietro Bovati, gesuita e segretario della Pontificia commissione biblica, quindi un’autorità in materia. Parlando di un’espressione che suscita “disagio pastorale”, Bovati sottolineava che “a causa di una traduzione dal latino fin troppo letterale, Dio risulta così essere l’artefice di un’operazione dannosa per l’orante: mai può essere attribuita a Dio l’azione del ‘tentare’ l’uomo, perché ciò sarebbe contraddittorio con la sua natura di Padre benevolo”. Notava ancora lo scrittore del periodico gesuita che “la convergenza amorosa del desiderio divino e umano che il Padre nostro intende favorire sembra però interrotta dalla penultima petizione, quella che nella traduzione latina diceva et ne nos inducas in tentationem. Qui infatti, per la prima e unica volta, l’orante chiede a Dio di ‘non’ fare qualcosa nei confronti di chi sta pregando, quasi che l’intenzione e il progetto del Padre fossero frenati da quanto il figlio desidera. Di più, l’immagine che viene attribuita al Signore risulta davvero insoddisfacente, perché, a prima vista, Egli viene ritenuto l’artefice di un’operazione pericolosa, o addirittura dannosa, per l’orante”.

 

La resistenza dei “puristi” che schierano a difesa delle proprie tesi san Tommaso e assicurano: “Pregheremo in latino”

La questione è rilevante, perché di mezzo non ci va un passo qualsiasi della Bibbia, ma la preghiera per eccellenza, il cui valore è stato rimarcato dal Papa lo scorso marzo, durante una catechesi tenuta in piazza San Pietro: “Questa non è una delle tante preghiere cristiane, ma è la preghiera dei figli di Dio: è la grande preghiera che ci ha insegnato Gesù. Infatti, consegnatoci nel giorno del nostro Battesimo, il Padre nostro fa risuonare in noi quei medesimi sentimenti che furono in Cristo Gesù. Quando noi preghiamo col Padre nostro, preghiamo come pregava Gesù”, diceva Francesco. “E’ la preghiera che ha fatto Gesù, e l’ha insegnata a noi; quando i discepoli gli hanno detto: ‘Maestro, insegnaci a pregare come tu preghi’. E Gesù pregava così”.

 

Eppure, c’è chi resta scettico. I più fermi nel contrastare la novità si trincerano dietro san Tommaso e il suo commento al Padre nostro: “Essere tentati è cosa umana, ma consentirvi è cosa diabolica. Forse Dio induce al male dal momento che ci fa dire: ‘non ci indurre in tentazione’? Rispondo che si dice che Dio induce al male nel senso che lo permette, in quanto, cioè, a causa dei suoi molti peccati precedenti, sottrae all’uomo la sua grazia, tolta la quale, egli scivola nel peccato. Per questo noi diciamo col salmista ‘Non abbandonarmi quando declinano le mie forze’ . Dio però sostiene l’uomo, perché non cada in tentazione, mediante il fervore della carità che, per quanto sia poca, è sufficiente a preservarci da qualsiasi peccato”. Riccardo Barile, teologo e frate domenicano, docente di Teologia dogmatica presso la Facoltà di Teologia di Bologna, ha scritto che cambiare la versione del Padre nostro si può, ovviamente, ma più si precisa, più si perdono tanti significati concomitanti e sottesi”. Il Papa, più che a questi significati, chiede quantomeno di essere coscienti di quel che si prega: “Quante volte si vede gente che dice Padre nostro e non sa quello che sta dicendo…”.

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  • Matteo Matzuzzi
  • Friulsardo, è nato nel 1986. Laureato in politica internazionale e diplomazia a Padova con tesi su turchi e americani, è stato arbitro di calcio. Al Foglio dal 2011, si occupa di Chiesa, Papi, religioni e libri. Scrittore prediletto: Joseph Roth (ma va bene qualunque cosa relativa alla finis Austriae). È caporedattore dal 2020.