Alcuni fedeli in una chiesa di Taiwan (foto LaPresse)

L'ultima frontiera

Matteo Matzuzzi

La giovane chiesa di Taiwan guarda la Cina al di là del mare. Qui si è realizzato il mix tra oriente e occidente. Nel bene e nel male

Nell’immensa Cina, di Taiwan ce ne starebbero duecentosessantadue, parlando di superficie, di semplici chilometri quadrati. Da una parte il grande paese dell’oriente dai mille dialetti, dall’altra l’isoletta poco più vasta della Sicilia con vette alte fino a quattromila metri; a ovest l’impero socialista che controlla de facto mezzo mondo e a est il rifugio di chi, settant’anni fa, non volle sottomettersi all’implacabile marcia maoista. Indipendente solo per una manciata di paesi al mondo, visto che per gli altri non è che una delle tante provincie della madrepatria. A dividerli, solo centottanta chilometri di non proprio cristalline acque marine.

 

Nel 2001 è stata aperta a Taipei la casa della Fraternità San Carlo. La missione: annunciare Cristo in ogni luogo, a chi non lo conosce

A Taiwan i cattolici – presenti da circa un secolo e mezzo – sono minoranza tra le minoranze, l’uno per cento della popolazione. I cristiani nel loro complesso arrivano al quattro per cento. Chiesa di periferia, giovane e con tutti i rischi che ciò comporta. Come la fretta di affermare la propria presenza, che spesso porta a esagerare: l’enorme cappella a forma di scarpetta di Cenerentola costruita nella città di Budai, alta 16 metri e costituita da 320 pannelli di vetro, ne è una dimostrazione . E pazienza se la manager del parco dove l’edificio è stato installato ha spiegato che più che un luogo di culto si tratta di un’attrazione per turisti, capolinea di un “viale romantico” per sposi novelli. Tre anni fa, a Taipei, durante la Veglia di Pasqua, furono celebrati centinaia di battesimi. Nella sola parrocchia della Sacra famiglia, se ne registrarono sessantasette. “Abbiamo capito che la testimonianza dei cattolici della città è la cosa più importante: il battesimo è qualcosa che cambia la vita, che porta un’impronta particolare in famiglia e nell’ambiente di lavoro”, diceva ad Asianews il responsabile della pastorale dei catecumeni di quella parrocchia. Una fede che cresce, lenta ma costante. Un po’ come accade in altre oasi dell’Asia, a partire dalla Corea del sud visitata quasi quattro anni fa da Papa Francesco.

 

E’ in questo contesto che dal 2001 a Taipei ha aperto la casa della Fraternità San Carlo. Due sacerdoti, Paolo Cumin e Paolo Desandrè, che appena ordinati diaconi arrivarono sull’isola invitati dall’allora arcivescovo, mons. Ti Kang. Don Massimo Camisasca, allora superiore generale della Fraternità dei missionari di San Carlo (oggi è vescovo a Reggio Emilia), desiderava spostare ancora più a est la frontiera per la Fraternità, dopo che nel 1991 era stata aperta la missione in Siberia. Annunciare Cristo a tutti, da nord a sud, da oriente a occidente. Arrivare nei punti più lontani, nelle terre dove meno si conosce Gesù.

 

La diffidenza delle vecchie generazioni, le superstizioni ancestrali. Ma a Pasqua i battesimi sono sempre centinaia

Nel 2002, con l’arrivo di don Paolo Costa, la casa si trasferì nei dintorni dell’università Fu Jen, con i tre impegnati a studiare mandarino e insegnare l’italiano. Nel 2005, il vescovo Zhen Zaifa affidò alla Fraternità San Carlo la parrocchia di san Francesco Saverio a Tai Shan, che oggi conta un centinaio di fedeli. Tre anni più tardi, alla San Carlo è affidata la parrocchia di San Paolo Xinzhuang, il cui parroco, da pochi mesi, è don Donato Contuzzi, ordinato sacerdote nel giugno del 2013, viceparroco dal 2014 e giunto sull’isola nel 2012, quand’era ancora diacono. Una parrocchia frequentata da circa 700 fedeli, per anni sotto la guida di don Paolo Costa. Quant’è di frontiera la chiesa a Taiwan? “Molto, come la chiesa di ogni luogo”, dice don Contuzzi al Foglio. “C’è un aspetto dell’essere di frontiera che è infatti uguale a ogni latitudine e che riguarda l’incontro con l’umano. Quando sono arrivato qui più di cinque anni fa, mi ha colpito come – al di là delle differenze estetiche e culturali – le persone che incontravo e incontriamo hanno esattamente gli stessi desideri, problemi e domande che ogni uomo porta con sé. Certo qui sono ‘vestite’ in un altro modo, appaiono e si esprimono in cinese, ma in fondo sono uguali per tutti. La chiesa è sempre sulla frontiera dell’umano. D’altra parte però è vero che ogni luogo, proprio per la sua storia e cultura è diverso da un altro, e con esso le persone che ci vivono. In questo senso la chiesa di Taiwan è particolarmente di frontiera, in quanto immersa in una cultura totalmente cinese, che ha incontrato il cristianesimo solo poche centinaia di anni fa e che, per l’influsso americano, si è molto occidentalizzata. E’ un mix di oriente e occidente, nel bene e nel male”. Di ostacoli che si parano davanti nell’annunciare Cristo ce ne sono parecchi, e non solo per la storica difficoltà che ha il cristianesimo ad attecchire a queste latitudini: “E’ vero che a volte in famiglia ci sono resistenze alle conversioni al cristianesimo”, spiega don Donato, “soprattutto da parte dei genitori o dei nonni che hanno paura che in futuro i figli non potranno più prendersi cura delle loro anime attraverso i riti tradizionali. Ma devo dire che alla fine vedere i figli felici è ciò che, nel tempo, convince anche i più anziani. Capita infatti che gli stessi anziani si lascino guidare dai più giovani e chiedano il battesimo. Quest’anno, tra i vari battezzandi della notte di Pasqua abbiamo avuto una signora di più di novant’anni! L’ostacolo più grosso, dunque, non mi pare essere la differenza culturale, quanto piuttosto la secolarizzazione, la stessa che troviamo in Europa e che nasce da una anestetizzazione da parte della società delle domande più profonde del cuore dell’uomo. La differenza è che qui i pregiudizi sul cristianesimo sono quasi inesistenti”.

 

Giovanni Paolo II disse che anche per la chiesa l’Asia sarebbe stata il continente del Terzo millennio. Eppure i dati mostrano che – oasi a parte, come sono in particolare le Filippine e la già citata Corea del sud, – la presenza è minimale, che la crescita annunciata anche da tante analisi sull’espansione delle religioni in oriente ancora non si vede. Eppure, “io credo che la profezia di Giovanni Paolo II si stia avverando”, nota don Contuzzi. “Per quanto bassa sia la percentuale, ogni anno ci sono migliaia di persone che si convertono al cristianesimo, e parlo solo dell’area cinese. L’Asia è un continente enorme e diversificato e la mia conoscenza è molto limitata. Parlando della realtà che conosco, posso dire che, nel grande mistero che la sua domanda intercetta, una delle componenti – come ci disse un vescovo cinese – è che ‘voi sarete sempre degli stranieri per questa gente’. Il seme del cristianesimo arrivò in Cina già nell’Ottavo secolo d. C., ma in questa cultura forse più che in altre occorrono tempo e pazienza. La cultura millenaria che hanno incontrato i primi missionari era molto forte e radicata, e per questo tendenzialmente chiusa. Come però ha detto qualche settimana fa mons. Paul Gallagher, segretario vaticano per i Rapporti con gli stati, intervenendo a un convegno sulla chiesa in Cina, il seme sta crescendo secondo la sua identità genetica e spero che questo processo possa continuare e portare frutto nella vita delle persone”.

 

“Vediamo ragazzi che sanno poco di Cristo, pieni di domande senza un luogo in cui poterle condividere. Noi offriamo questo luogo”

E’ curioso che se si domanda quale sia una delle ragioni che ha portato un gruppo di preti italiani ad andare fino su quest’isola nel mar Cinese, la risposta sia semplice: “Il mandarino”. Ma dietro l’apparente banalità della replica c’è qualcosa di ben più complesso e significativo: studiare il mandarino è il modo più diretto di entrare in quella cultura, di rivolgersi al popolo cinese nella sua interezza. E’ per questo che i missionari, appena arrivano a Taiwan, passano tre anni a studiare la lingua. Che è complicata, visto che ogni ideogramma è nient’altro che un disegno che esprime un senso o un’idea. Esistono cinque accenti e modi di leggere tale ideogramma, e a ogni accento è associato un significato diverso. Ma altre strade per sfondare il muro delle naturali resistenze e diffidenze non ci sono. Il primo ambito di missione è stata l’università, ed è da lì che tanti ragazzi sono giunti alla fede. Attraverso la semplice amicizia. “Nella nostra casa siamo in quattro”, dice don Donato Contuzzi: “Io, don Paolo e don Emanuele siamo insegnanti all’Università cattolica Fu Jen presso il dipartimento di lingua e cultura italiana. Don Antonio, che sarà ordinato sacerdote a giugno, studia la lingua. Ci sono inoltre affidate due parrocchie, San Francesco Saverio e San Paolo e infine seguiamo la piccola comunità di Comunione e Liberazione nata circa vent’anni fa. In ogni ambito siamo spettatori del grande miracolo del cambiamento del cuore delle persone di ogni età, come accennavo prima. Ma forse quello più ‘di frontiera’, per riprendere il termine, è l’università. Qui ogni giorno siamo a contatto con ragazzi che sanno poco o nulla di Cristo, pieni di domande e aspettative che spesso non trovano un luogo in cui poter semplicemente essere espresse e condivise. Noi offriamo loro questo luogo, questa amicizia, attraverso le nostre persone e un incontro settimanale in università. E’ impossibile scrivere tutto, ma in alcuni – nota il sacerdote – accade davvero una ‘liberazione’ attraverso la ‘comunione’”.

 

Ma che cosa significa essere missionari su un’isola poco più grande della Sicilia che guarda la grande Cina al di là del mare? “Si può essere missionari solamente per gratitudine. Questo per me vuol dire approfondire e riscoprire con gli occhi della gente a cui sono mandato la grazia enorme che l’incontro con Cristo ha portato e porta nella mia vita. Esserlo qui vuol dire esserci per ogni volto e persona che incontriamo, perché essa vale più del mondo intero. E al contempo attraverso quella faccia abbracciare con desiderio e pazienza tutti coloro che ancora non hanno avuto la grazia di incontrare Colui che stanno più o meno consapevolmente cercando”.

 

“L’ostacolo più grosso che abbiamo non è la differenza culturale, ma la secolarizzazione”, dice il parroco don Contuzzi

Taiwan attende gli sviluppi dell’accordo tra la Santa Sede e la Cina, temendo che il proprio storico rapporto con Roma possa subire una seria battuta d’arresto. La sensazione di essere oggetto di negoziati che si tengono altrove, dei quali si è spettatori e poco più, c’è, è presente anche se non così marcata come l’osservatore occidentale potrebbe attendersi. A inizio febbraio, il Global Times, considerato essere organo semi-ufficiale del Partito comunista cinese, metteva il dito nella piaga, scrivendo che “il Vaticano è l’unico alleato di Taiwan in Europa e, considerata la speciale attrattiva della Santa Sede, sarebbe un duro colpo” per il partito al governo a Taipei “se il Vaticano tagliasse i legami con Taiwan”. Il che è vero. A oggi le autorità di Taipei si aggrappano a quel riconoscimento della Santa Sede che vale molto più di tanti trattati d’amicizia che sovente gli stati stipulano tra loro, a volte disattendendoli qualche mese dopo. “Alcuni parrocchiani ultimamente hanno manifestato perplessità a riguardo del probabile accordo per la paura di rimanere ‘orfani’. Ma ciò è dovuto soprattutto alla disinformazione che spesso c’è. Noi abbiamo detto loro che la chiesa è madre e non abbandona i suoi figli. La maggior parte dei cattolici però non mostra timore perché in loro questo giudizio è già realtà”, dice don Donato. La speranza è che l’accordo tra Pechino e il Vaticano possa contribuire ad allentare anche le tensioni, che ciclicamente ritornano, tra la grande madrepatria e l’isola gelosa della propria indipendenza. 

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  • Matteo Matzuzzi
  • Friulsardo, è nato nel 1986. Laureato in politica internazionale e diplomazia a Padova con tesi su turchi e americani, è stato arbitro di calcio. Al Foglio dal 2011, si occupa di Chiesa, Papi, religioni e libri. Scrittore prediletto: Joseph Roth (ma va bene qualunque cosa relativa alla finis Austriae). È caporedattore dal 2020.