Una bandiera cinese in piazza San Pietro (foto LaPresse)

"La chiesa cattolica in Cina è divisa, ma non perseguitata"

Matteo Matzuzzi

Quel che il Papa sa del negoziato con Pechino, la necessità di una ricomposizione. Parla il sinologo Francesco Sisci

Roma. Il dossier cinese tiene banco in Vaticano, all’indomani del botta e risposta tra il cardinale Joseph Zen, arcivescovo emerito di Hong Kong, e la Sala stampa della Santa Sede, che in un comunicato ha deprecato che uomini di chiesa alimentino “confusione e polemiche” sostenendo che il Papa non sarebbe del tutto informato sullo stato dei negoziati e la situazione della chiesa cattolica in Cina. Francesco Sisci, docente presso l’Università Renmin a Pechino e autore per AsiaTimes della prima intervista a Jorge Mario Bergoglio sulla Cina, non è d’accordo. Gli chiediamo se abbia avuto l’impressione di essere davanti a una persona che sapesse poco delle vicende cinesi: “Io posso dare la mia testimonianza diretta: il Papa non solo sa di cosa parla, ma è estremamente puntiglioso nell’informarsi e nel capire cosa dire. L’intervista non è stata preparata in due giorni, ci sono voluti mesi nei quali il Papa ha letto libri, si è informato, ha parlato con diverse persone. Poi si è presentato come uno studente all’esame: aveva studiato tutto e non aveva nemmeno un appunto. Ha parlato un’ora di fila, ingaggiando l’interlocutore, cioè me. Francesco si prepara, cerca di capire profondamente la materia e poi la rende semplice, affinché sia compresa da tutti. Chi dice che il Papa non conosce i dossier, dimostra di non conoscere affatto questo Papa”.

 

Ha visto mutare in questi anni, nella società cinese, la percezione verso la chiesa cattolica? “Per trent’anni la chiesa cattolica in Cina, ma direi in generale in tutta l’Asia eccezione fatta per le Filippine – che sono una specie di propaggine latinoamericana in terra asiatica – non aveva alcun impatto. In questi ultimi anni è cambiato l’approccio: l’atteggiamento del Papa ha dato forza a una chiesa cattolica locale che era solo debole minoranza e che pian piano sta emergendo. E’ un effetto storico: la chiesa in Asia non c’era, i cattolici erano minoranza tra le minoranze. Bergoglio ha portato la chiesa a essere presente, grazie anche a un approccio che mette insieme una semplicità di fondo con una profondità che va dritta al cuore. Si leggono i suoi interventi quotidiani, penso ad esempio alle omelie del mattino”. E però il tema della presenza di una chiesa ufficiale di stato accanto a una sotterranea e clandestina fedele a Roma continua a dominare il dibattito, spesso lacerando i fronti contrapposti. 

 

E’ corretta l’immagine di una chiesa che cammina su un doppio binario? Risponde il sinologo: “Veniamo da una spaccatura storica tra le due anime della chiesa cinese. Una che è rimasta leale al Papa e ha rifiutato ogni rapporto con il governo cinese – e per questo ha scelto anche di soffrire – e l’altra che ha preferito fare compromessi. Entrambe le posizioni avevano una logica, ma questa era una storia all’interno della Guerra fredda. La chiesa allora era parte di un’alleanza, aveva troncato i rapporti con il governo comunista e li aveva mantenuti con Taiwan. La chiesa cattolica era percepita come la quinta colonna delle forze imperialiste. La Lettera ai cattolici cinesi di Benedetto XVI ha tolto ogni velo. Ratzinger in quel documento disse chiaramente che in Cina c’è una sola chiesa. Da allora è iniziato un processo di riconciliazione, ma alle spalle ci sono pur sempre settant’anni di spaccatura. E’ una situazione non facile ma se continuiamo a parlare della divisione, non ci si muove, ognuno resta sulle proprie posizioni. La domanda è: vogliamo colmare questa spaccatura o lasciarla così com’è, magari allargandola? Farei un parallelo con quanto accaduto nel 1951, durante la ‘prima’ Guerra fredda. Allora la chiesa si schierò da una parte. Oggi che si sta aprendo una ‘seconda’ Guerra fredda con la Cina – basta guardare l’ultima copertina dell’Economist – cosa intende fare la chiesa con Pechino? Ci sono due aspetti che vanno analizzati, il primo – che è quello evidenziato dal cardinale Pietro Parolin nell’intervista alla Stampa di ieri – è religioso, e punta alla pura riconciliazione. Ma ce n’è anche uno politico: una riconciliazione non avviene ‘in vitro’ bensì in una realtà delicata e complessa. Proprio per questo è fondamentale non schierare la chiesa da una parte e mi pare che l’azione di Francesco si inserisca lungo tale linea”.

 

E’ giusto – domandiamo – il paragone con la storica Ostpolitik vaticana pensata e portata avanti dal cardinale Agostino Casaroli? “E’ un paragone fuorviante, perché la Ostpolitik si reggeva in una situazione di Guerra fredda che sembrava sul punto di diventare caldissima. I paesi interessati, poi, erano a forte maggioranza cristiana: Polonia, Ungheria, Russia. Insomma, l’azione della Santa Sede allora si inseriva in un quadro molto diverso. In Asia, e in particolare in Cina, abbiamo una situazione in cui la chiesa cattolica è una minoranza e che prima di Francesco era quasi invisibile. Non c’è una massa di gente disposta ad ascoltare le parole del Papa, ma una massa di uomini e donne che non sa nemmeno chi è il Papa. E poi sono diversi sia il contesto internazionale sia quello culturale: il comunismo in Cina è una mano di vernice che copre una distanza molto più profonda con l’occidente. Qui parliamo di confucianesimo e buddismo, una realtà davanti alla quale la chiesa è impreparata: quanti sono i cardinali che conoscono il cinese? Quanti hanno familiarità con i classici della letteratura locale?”. La letteratura russa è parte della nostra familiarità, così come Chopin.

 

Come si spiega allora quest’apertura con le cronache quotidiane di chiese smantellate e croci rimosse nottetempo dagli edifici di culto? “Chiariamo – dice Francesco Sisci – la Cina non è il Paradiso in terra. Non ci si rende conto, qui, che non si può trasformare il mondo in una grande Cina. Certamente Pechino ha le sue colpe, ma è anche vero che molte di quelle chiese oggi demolite furono costruite senza i regolari permessi. Detto questo, in Cina la chiesa non è perseguitata, perché se ci fosse una persecuzione la vedremmo. Pensiamo solo al Falun Gong, che è sparito. Le persecuzioni sono annunciate sul Quotidiano del Popolo, non si permetterebbe a preti e fedeli di manifestare davanti ai bulldozer e alle macchine fotografiche. Invece in Cina i cristiani aumentano, anno dopo anno”.

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  • Matteo Matzuzzi
  • Friulsardo, è nato nel 1986. Laureato in politica internazionale e diplomazia a Padova con tesi su turchi e americani, è stato arbitro di calcio. Al Foglio dal 2011, si occupa di Chiesa, Papi, religioni e libri. Scrittore prediletto: Joseph Roth (ma va bene qualunque cosa relativa alla finis Austriae). È caporedattore dal 2020.