Papa Francesco (foto LaPresse)

La grande battaglia che si combatte nella chiesa

Matteo Matzuzzi

Il Papa ordina il mea culpa pubblico al cardinale Sarah. Ma in gioco c’è la rotta da dare alla chiesa, per l’oggi e soprattutto per il domani

Per capire l’aria che tira dalle parti del Vaticano è sufficiente spendere qualche minuto per leggere la lettera che il Papa ha spedito al cardinale Robert Sarah, prefetto della congregazione per il Culto divino. Si tratta di una sfiducia pubblica, che verosimilmente porterà in un lasso di tempo non troppo ampio all’avvicendamento del cardinale guineano, benché diversi osservatori di affari curiali sostengano che l’ipotesi più probabile sia il mancato rinnovo del mandato quinquennale. Un po’ come accaduto a luglio al prefetto per la Dottrina della fede, Gerhard Ludwig Müller. I fatti: lo scorso settembre, Francesco aveva promulgato il motu proprio Magnum Principium che affidava alle conferenze episcopali nazionali tutti i poteri circa la traduzione dei testi liturgici. Alla Sede apostolica rimaneva solo la potestà di confermare (confirmatio) le decisioni dei vescovi locali.

 

Abolita la recognitio, cioè l’esame punto per punto del lavoro compiuto lontano da Roma. Sarah, qualche settimana più tardi, aveva inviato al Papa e a diversi siti internet – questo è stato probabilmente l’errore che ha portato alla lettera firmata da Francesco – un suo parere sulla questione, sostenendo che non cambiava granché e che la congregazione per il Culto divino comunque manteneva una voce in capitolo. È qui che arriva la sconfessione – qualcuno parla di correctio paternalis, facendo il verso alla correctio filialis che denuncia le presunte eresie contenute in Amoris laetitia – bergogliana. Netta e per nulla ambigua: Sarah sbaglia su tutta la linea ed è pregato cortesemente – si legge testualmente – “di provvedere alla divulgazione di questa mia risposta sugli stessi siti nonché l’invio della stessa a tutte le conferenze episcopali, ai membri e ai consultori di codesto dicastero”. In pratica, il titolare del Culto deve fare mea culpa pubblico su questioni che attengono al culto e, soprattutto, per aver contraddetto il Papa. Su diversi siti d’area tradizionalista si grida all’autocrazia papale, che non risparmia quanti, siano anche cardinali di curia, non sono allineati alla primavera che circonda San Pietro e Santa Marta.

  

Il Papa però può fare quello che vuole, è libero di avvicendare vescovi e porporati senza dover rendere conto a nessuno. Bergoglio in questo pare più convinto dei suoi predecessori. Non è tanto questione di essere conservatori o progressisti: Francesco cerca esecutori silenziosi e poco appariscenti. Dell’orientamento o della sensibilità del collaboratore non si interessa troppo (al posto di Müller al Sant’Uffizio ha messo Ladaria, che non è certo un seguace di Leonardo Boff e lo stesso Sarah è stato promosso al Culto dal Pontefice regnante). La lettera diffusa domenica dalla sala stampa vaticana rende però ancora una volta palese la spaccatura profonda nella chiesa, con una parte che incoraggia il repulisti di oppositori e legalisti “farisei” e l’altra che per poco non parla addirittura di persecuzione.

  

Cordate, correnti, persino “partiti”. Clima da torcida, con tifo spinto su questioni dirimenti, non sul colore delle scarpe papali o sulla qualità del menù di Santa Marta. Famiglia, morale, liturgia. In gioco c’è la rotta da dare alla chiesa, per l’oggi e soprattutto per il domani. Le posizioni, come s’è visto anche dalle opposte petizioni che circolano in queste settimane, sottoscritte anche da vescovi, sono inconciliabili. E l’evangelico ut unum sint (affinché siano una cosa sola) non pare essere la definizione più appropriata per valutare i marosi in cui naviga la barca di Pietro.

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  • Matteo Matzuzzi
  • Friulsardo, è nato nel 1986. Laureato in politica internazionale e diplomazia a Padova con tesi su turchi e americani, è stato arbitro di calcio. Al Foglio dal 2011, si occupa di Chiesa, Papi, religioni e libri. Scrittore prediletto: Joseph Roth (ma va bene qualunque cosa relativa alla finis Austriae). È caporedattore dal 2020.