Dalla dottrina ai soldi, ecco la "guerra civile" nella chiesa di Francesco

Matteo Matzuzzi

Liti tra intellettuali su Twitter, purghe di docenti, siti internet oscurati. Ross Douthat sul Nyt: "E' caos, ma voluto"

Roma. Ha scritto qualche giorno fa sul New York Times Ross Douthat che il caos nella chiesa, con le categorie schmittiane di nemico-amico divenute i termini con cui classificare e definire le opposte fazioni, chi è dalla parte di Francesco e della sua rivoluzione e chi contro, è ormai inevitabile. Il clima, ha aggiunto il commentatore americano, è da inquisizione, i conservatori che mettono all’indice i libri dei preti progressisti (è il caso del gesuita James Martin, cui la Catholic University of America ha rifiutato di concedergli un’aula per presentare il suo libro Costruire un ponte sul tema dell’omosessualità nella chiesa) e i filosofi conservatori che vengono cacciati dalle università perché dubbiosi su Amoris laetitia (Josef Seifert, punito dall’arcivescovo di Granada con il licenziamento per aver definito l’esortazione controversa sulla famiglia una “bomba”). Non sapeva, Douthat, che nel frattempo sarebbero arrivate le accuse a mezzo stampa dell’ex revisore generale dei conti, Libero Milone, che accusa le alte sfere d’oltretevere (il sostituto mons. Becciu e il capo della Gendarmeria, Giani, di averlo costretto – non con le buone – alle dimissioni per voler tarpare le ali alla ventata di trasparenza nelle finanze vaticane. Non sapeva neppure che sarebbe giunta l’attesa correzione filiale al Papa, “supplicato” di porre rimedio a “sette eresie” contenute in Amoris laetitia (tanti firmatari, ma nessun vescovo o cardinale, il che rende il documento assai meno dirompente di quanto lo sarebbe stato se in calce al testo fosse apparso il nome di qualche prelato). 

 

E ovviamente Douthat ignorava che il sito internet ove la correzione è apparsa sarebbe stato bloccato in tutto il territorio della Città del Vaticano per “motivi di sicurezza”, sì da far gridare alla censura in stile cinese diversi blog. Comunque sia, il risultato è che la chiesa sta vivendo la sua guerra civile e – aggiunge – ad avercela infilata con entrambi i piedi è stato il Papa in persona. E’ Francesco, con le sue ambiguità, il suo detto-non detto, ad aver voluto alimentare questo hobbesiano bellum omnium contra omnes, la guerra di tutti contro tutti. Non si tratta tanto di prendere in mano il vessillo dell’una o dell’altra parte, di agitare fango velenoso nel ventilatore per danneggiare questo o quel presule reo d’interpretare una precisa linea, considerato che “nella chiesa cattolica di Papa Francesco è pericoloso essere troppo conservatori così come lo è essere troppo liberal”. E’ un pontificato di rottura, che vive “usando dichiarazioni ambigue e interventi non ufficiali” anziché “fare un utilizzo esplicito dei poteri che il suo ruolo gli attribuisce”. Questione di stile, insomma, ma non solo, perché la conseguenza è che Bergoglio ha “sconvolto le linee di autorità all’interno della chiesa”. Con il risultato che tutti, dal porporato più in vista fino al pretino di campagna, dal vaticanista eminente al freelance più o meno d’assalto, si sentono in qualche modo in dovere di prendere parte alla contesa. E allora i social diventano terreno di battaglia, con le trincee lasciate sguarnite e le baionette pronte per gli assalti.

 

Veleno, dispute teologiche sovente raffazzonate, catene di preghiere organizzate per perorare la causa del Papa o, al contrario, per farlo rinsavire. Queste si facevano già prima dell’avvento di Twitter e Facebook, basti considerare le chiacchierate suppliche serali per la dipartita di Pio XII nei lontani anni Cinquanta. E poi, appunto, “correzioni filiali” come non si vedevano dal Trecento. Douthat sembra aver frequentato le magnifiche stanze della Gregoriana, dove già nell’estate del 2013, quindi pochi mesi dopo l’ascesa al Soglio di Francesco, un anziano gesuita diceva che non vi sarebbe stata mai alcuna cesura eclatante con il passato, remoto o immediato che fosse. No, il nuovo Papa avrebbe circumnavigato le questioni fondamentali e delicate, lasciandole montare nella baruffa interna ed esterna alla chiesa, per poi scavare tutt’attorno e decidere. Senza formalmente mutare i princìpi tramandati nei secoli. Scrive infatti l’editorialista americano che Bergoglio incentiva la decentralizzazione – dopotutto l’ha chiarito per bene nella Evangelii gaudium, il programma del pontificato – ma in realtà mantiene tutti i poteri formali del suo ruolo. Spinge allora per una discussione teologica aperta, lascia fare e non s’esprime, se non (appunto) con lettere private (ai vescovi argentini, per esempio, scrisse che la loro interpretazione di Amoris laetitia era quella giusta) o telefonate, o ancora con conversazioni con auguste penne del giornalismo. E’ naturale, argomenta ancora Douthat, che così facendo ogni paese, ogni conferenza episcopale faccia un po’ a modo suo, mettendo in pratica il medesimo insegnamento in modi opposti, stando poi attenti a non perdersi “le strizzate d’occhio” e le “allusioni” del Papa per comprendere se si è in ragione o nel torto. “L’unica certezza cattolica – osserva allora l’editorialista – è l’incertezza (perfino sulla formula del Credo, che come ha scritto di recente il professor Alberto Melloni, potrebbe cambiare per andare incontro ai fratelli ortodossi) . “Sotto la guida di Francesco – ha chiosato l’editorialista del Nyt –, l’insegnamento della chiesa sulla comunione ai divorziati risposati varia da paese a paese, da diocesi a diocesi. Perfino gli ammiratori del Papa non sembrano concordare su quali siano le posizioni del Vaticano”.

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  • Matteo Matzuzzi
  • Friulsardo, è nato nel 1986. Laureato in politica internazionale e diplomazia a Padova con tesi su turchi e americani, è stato arbitro di calcio. Al Foglio dal 2011, si occupa di Chiesa, Papi, religioni e libri. Scrittore prediletto: Joseph Roth (ma va bene qualunque cosa relativa alla finis Austriae). È caporedattore dal 2020.