La chiesa dei due papi

Matteo Matzuzzi

Dopo quattro anni arriva pure un film: Anthony Hopkins sarà Benedetto XVI, mentre Jonathan Pryce sarà Francesco. Ma la sacra convivenza in Vaticano non è stata felice per come la Chiesa l’aveva percepita

Era inevitabile. La consolazione, almeno quella, è che non ne faranno una serie tv. Ma il film sì, è in preparazione. “The Pope” è il titolo, che è generico e innocente, ma che cela in sé la storia della chiesa dei due Papi, o la chiesa del Papa effettivo (regnante forse è poco politicamente corretto, di questi tempi) e di quello emerito, in pensione. Una volta i film, se si facevano, riguardavano Papi passati a miglior vita, finiti a contemplare finalmente la gloria del Suo volto. Oggi, da un decennio o poco più, quaggiù sulla terra è invece ormai prassi la rincorsa alla melassa, al decantare la bontà dei Pontefici viventi. Produzioni zuccherose, con lacrime ad abundantiam, scene idilliache da libro Cuore. Il film by Netflix racconterà il quadriennio che va dall’elezione di Ratzinger all’elezione del successore. Regista sarà Fernando Meirelles (quello di “City of God”), si gira in Argentina e il cast è notevole. Jonathan Pryce sarà Francesco, Anthony Hopkins Benedetto. Pryce è piuttosto somigliante, poi faceva cose tipo Lytton Strachey e i vittoriani, ci spiega Mariarosa Mancuso, nostra signora dei film che è invece più dubbiosa su Hopkins, il quale – oltre a non azzeccare più un film da un po’ – è anche “un pochino miscast, e non solo per via di Hannibal”. E poi, “gli attori bravi colgono movimenti e gesti, anche se non si somigliano per niente, ma proprio io non ce lo vedo”, dice Mancuso. Resterà la curiosità per osservare come sarà resa la convivenza, se infileranno riferimenti à la Dan Brown, da torbido complotto, o se il povero Hopkins sarà ridotto a fare il pensionato che passeggia per i vialetti dei Giardini vaticani. Soprattutto, sarà interessante rivedere in pellicola quanto accadde l’11 febbraio del 2013, il giorno del fatale annuncio che a modo suo ha cambiato un po’ il corso della storia.

 

“Si immagina, Eminenza? Tra qualche anno vedremo due, tre, quattro Papi insieme aggirarsi per i giardini vaticani”, diceva il pomeriggio di quel giorno uggioso, fermata la pioggia e calato il vento, un monsignore di curia conversando con un porporato. Poche ore prima, nel Palazzo apostolico, Benedetto XVI aveva comunicato la decisione di rinunciare al mandato che i cardinali gli avevano conferito otto anni prima. Comunicava di voler salire sul monte, ritirandosi in preghiera per la chiesa e per il mondo. Non scendendo dalla croce, ma mettendo quella croce nelle condizioni di irradiare come una stella tutta la forza della sua luce.

 

E’ stato poi il periodo della convivenza, tutt’altro che forzata, se non per chi, nella baruffa tra i cosiddetti conservatori e i presunti progressisti, tenta di tirare per la talare l’uno o l’altro Papa, il regnante e l’emerito. Chi attaccandosi ai “misteri”, riducendo Ratzinger a un recluso che come un maturo Pollicino avrebbe lasciato segnali sul terreno (la tonaca bianca mai smessa, il titolo, lo stemma mantenuto) e chi schiuma rabbia non appena Benedetto fa sentire la sua voce con qualche prefazione, un messaggio in morte d’un amico, un breve biglietto. Quasi che tentasse con tali mezzi di interferire, di riprendersi idealmente quanto lasciato. E ogni volta la grancassa mediatica tira la volata all’uno o all’altro, a seconda di schemi che con le questioni spirituali hanno ben poco a vedere, essendo più affari da torcida curvaiola. “Benedetto ha sempre avuto poca passione per la storia, altrimenti mai avrebbe fatto quel che ha fatto” (cioè rinunciare), diceva col sorriso un cardinale che ben conosce, e da decenni, Joseph Ratzinger. Frase un po’ enigmatica, rimasta sospesa tra il detto e il non detto. E’ capitato tante volte, in questi anni di ripensarci, di soppesare parola per parola la confidenza. Il riferimento era forse alla convivenza tra Celestino V tornato pure lui sull’amato monte – in questo caso non solo metaforico – e il suo successore Bonifacio VIII? O c’era qualcosa d’altro, magari solo una valutazione tecnica, cioè derivata dal diritto canonico e dalla millenaria storia della chiesa?

 

A ogni modo, il problema della convivenza non dovrebbe neppure porsi, se si seguissero le ferree regole del diritto e della tradizione. Padre Gianfranco Ghirlanda, grande canonista nonché ex rettore della Pontificia Università Gregoriana, scriveva all’indomani della rinuncia ratzingeriana che “è evidente che il Papa che si è dimesso non è più Papa, quindi non ha più alcuna potestà nella Chiesa e non può intromettersi in alcun affare di governo. Ci si può chiedere che titolo conserverà Benedetto XVI. Pensiamo che gli dovrebbe essere attribuito il titolo di vescovo emerito di Roma, come ogni altro vescovo diocesano che cessa”. “Nessuno avrebbe potuto immaginare questo spettacolo surreale: un Papa regnante abbracciare un Papa emerito dentro San Pietro. Ora i cattolici si stanno abituando alla nozione di Papa emerito. Se l’approvino, o capiscano cosa significa è invece meno facile da dire”, scriveva quasi due anni fa Damian Thompson, firma dello Spectator, sul Catholic Herald. Si riferiva all’immagine storica dell’apertura della Porta santa, l’8 dicembre del 2015, solenne inaugurazione del Giubileo della misericordia. Benedetto XVI, claudicante e appoggiato al bastone, varcare la soglia dopo Francesco.

 

Vittorio Messori, che di cose apparentemente surreali ne ha viste tante, scriveva tempo fa sul Corriere della Sera che “per la prima volta dunque la chiesa avrebbe davvero due Papi, il regnante e l’emerito” e che questa pare “sia stata la volontà di Joseph Ratzinger stesso, con quella rinuncia al solo esercizio attivo che è stato un atto solenne del suo magistero. Se davvero è così – concludeva Messori – tanto meglio per la chiesa: è un dono che ci sia, uno accanto all’altro anche fisicamente, chi dirige e insegna e chi prega e soffre, per tutti, ma anzitutto per sorreggere il confratello nell’ufficio pontificale quotidiano”.

 

Il fatto è che l’inedito, quello che mai c’era stato prima, almeno in epoca moderna, è destinato a divenire la prassi, la normalità. Un Papa che rinuncia non può essere un’eccezione nel cammino della storia. E poi sarebbe la normalità già da tempo, se Paolo VI avesse dato seguito a quanto già meditava, e che il cardinale Giovanni Battista Re ha rivelato al mondo poche settimane fa. Montini, prima che “arrivasse la notte”, aveva scritto due lettere: una in cui rinunciava al ministero petrino, l’altra in cui pregava il segretario di stato in carica di far accettare al Collegio cardinalizio la sua decisione. Neanche lui intendeva scendere dalla croce che fino all’ultimo respiro avrebbe sostenuto, senza per altro l’ombra d’un cireneo ad aiutarlo nella salita al Calvario. Paolo VI, per il bene della chiesa, aveva contemplato quanto sarebbe potuto accadere, aveva visto lontano, profeticamente e realisticamente. Un’invalidità permanente, una perdita di conoscenza irrimediabile, un declino inesorabile delle facoltà mentali. Ingravescentem aetatem, insomma. Scalare l’ultimo scalino della piramide, dare completezza a quella capitale riforma postconciliare che aveva inserito i limiti d’età anche nel corpo della chiesa cattolica. A tutti, meno che al Papa. Vescovi, parroci. Tutti. Si racconta che Montini avesse deciso in tal senso dopo un episodio capitato nel Conclave del 1963 che poi l’avrebbe visto risultare eletto. Nello scrutinio, una scheda compilata con calligrafia malferma riportava inesorabilmente, voto dopo voto, il nome di Eugenio Pacelli, che però era morto cinque anni prima.

 

Ecco, ringiovanire il corpo elettorale (con il limite degli ottant’anni) avrebbe fatto bene alla chiesa, aprendola a nuovi orizzonti e a nuovi afflati. Lo stesso discorso valse per i vescovi, prima in carica ad vitam, con spesso eterni periodi di sedi semi-vacanti, con pastori ottuagenari o più incapacitati ormai a governare le diocesi. Ma quell’ultimo scalino, quello del Papa, ha sempre rappresentato una sorta di tabù, un passo troppo ampio per poter essere compiuto.

 

“Non si scende dalla croce!”, commentava l’11 febbraio del 2013 il cardinale Stanislaw Dziwisz, segretario di Giovanni Paolo II che vide e visse il declino del Pontefice polacco, ormai rimasto senza voce. Tabù fino a quando a compiere il gesto fu Benedetto XVI. “Nella chiesa non c’è spazio per un Papa emerito”, dicono in tanti, non necessariamente intrepidi difensori del nuovo corso e sostenitori indefessi dell’aria fresca che entra dalle ampie finestre dei palazzi vaticani da quando sul Soglio petrino siede Francesco. Ma lo dicono anche tanti nostalgici del tempo che fu, tanti dei quali di legittimo considerano solo Ratzinger. E allora tornano, ciclici come il succedersi delle stagioni, i dibattiti sulla convivenza, possibile o impossibile, tra due vicari di Cristo in terra. Ogni punto dell’agenda del nuovo viene messa a confronto col vecchio, vivisezionata, commentata e criticata. Da qui le divisioni, le linee di frattura che ci sono come raramente era accaduto. Almeno così pubblicamente, nello spazio pubblico. Certo, a Paolo VI scagliarono contro le pietre dopo la Humanae vitae, con vescovi che si ribellavano al magistero del Papa – “un vescovo che non è d’accordo con il Papa se ne deve andare, ma se ne deve andare proprio”, aveva di recente detto il cardinale Carlo Caffarra, ignobilmente dipinto dal chiacchiericcio interessato dei media e da qualche velenoso curiale come un nemico di Francesco solo per avanzato dubbi su un documento che non essendo le Tavole della Legge di Mosè è suscettibile di opinioni divergenti. Ma ora si è giunti alle bordate, con solerti monsignori che perorano la cacciata dal Collegio cardinalizio di presunti oppositori e altri, sul fronte opposto, che tacciano con un po’ troppa facilità di eresia i presunti eterodossi.

 

Caos, non a caso, è la parola che il filosofo tedesco cattolico Robert Spaemann ha usato per descrivere la situazione, finendo pure lui nel calderone dei nemici del Papa, quasi che si fosse in presenza d’un adattamento ai tempi correnti di quanto Vassilij Grossman scriveva nei suoi racconti, tra delazioni e gulag sempre più aperti per quanti solo sospettati di non essere allineati al pensiero dominante.

 

Ma se a succedere al teologo tedesco non fosse stato Jorge Mario Bergoglio, la situazione sarebbe la stessa? Se anziché un gesuita sudamericano lo Spirito Santo avesse suggerito un altro, magari una “non-sorpresa”, il “doppio Papa” sarebbe risultato più normale? Si sarebbe evitato, insomma, il clima da tifo, che giocoforza ha portato a creare una contrapposizione tra i due Papi? Da più parti si dice che era inevitabile, e di certo non è dovuto né al silenzioso ritiro ratzingeriano né al dirompente muoversi bergogliano. Differenza di carattere, certo. Di stile e di formazione. La continuità c’è e ci mancherebbe pure che non ci fosse. Ma mai come negli ultimi secoli s’era avvertito uno stacco, come una cesura nella storia. Quasi che il papato di Benedetto XVI, dapprima da tutti ritenuto una sorta di naturale e scontato prolungamento dell’epopea giovanpaolina sia stato in realtà il momento culminante di una fase, di una storia nella Storia. E che il pontificato di Francesco sia un inizio, il principio di qualcosa che non si sa dove arriverà. Dopotutto, come ha più volte ripetuto, per Jorge Mario Bergoglio è più importante avviare processi e non ottenere risposte. Passo dopo passo, andare al largo, verso quel che può anche essere ignoto. Tanto, Dio, per chi ci crede, c’è sempre, ed è sempre lì, visto che, diceva Paolo VI, “ogni studio delle cose è come un contatto con un velo dietro il quale si avverte un’infinita palpitante Presenza”.

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