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Tutte le spine del complicato viaggio autunnale del Papa in Myanmar

Matteo Matzuzzi

La scivolata papale sui rohingya birmani. I vescovi locali raccomandano a Francesco: “E’ meglio se non li nomina più”

Roma. Con tutti i dovuti distinguo del caso, il viaggio che il Papa compirà tra la fine di novembre e l’inizio di dicembre in Myanmar e Bangladesh ricorda il doppio tour dell’anno scorso nel Caucaso. Dossier complessi da affrontare, diffidenze etniche e religiose, risvolti geopolitici pesanti. Massima attenzione per le parole che Francesco userà e per come queste saranno recepite. Lo si sapeva da tempo, anche quando l’ipotesi di volare nei due paesi era stata temporaneamente accantonata, salvo poi essere ripresa con decisione nei mesi scorsi fino alla scelta di Bergoglio, che ha incastrato il nuovo viaggio in Asia (sarà il terzo nel continente) tra i due in Sudamerica (Colombia a settembre e Perù-Cile a gennaio). E’ bastata l’ufficializzazione della visita per vedere sorgere già i primi problemi, con la Conferenza episcopale del Myanmar che ha suggerito – pubblicamente – al Papa di non usare più il termine “rohingya” e soprattutto durante la tappa nel paese del sud-est asiatico. “Abbiamo solo detto che la parola rohingya è un tema sensibile nel paese e sarebbe meglio non usarla durante la visita”, ha chiarito all’agenzia Ucanews mons. Alexander Pyone Cho, arcivescovo di Pyay, la diocesi dello stato Rakhine dove abita la minoranza perseguitata. I vescovi della ridotta comunità cattolica del paese (i fedeli a Roma sono poco più dell’uno per cento della popolazione) sono intervenuti dopo l’appello pronunciato domenica scorsa all’Angelus, in cui Francesco si era limitato a parlare delle “tristi notizie sulla persecuzione della minoranza religiosa dei nostri fratelli rohingya”, esprimendo la sua vicinanza e auspicando per loro “i pieni diritti”.

 

Questo passaggio, in particolare, ha determinato la presa di posizione della Conferenza episcopale, che ha subito convocato una conferenza stampa per chiarire lo scopo del viaggio – “promuoverà la pace e la fraternità della nazione” –  e tentare di spegnere sul nascere le critiche espresse da diversi esponenti della maggioranza buddista (che corrisponde all’89 per cento della popolazione) alla presunta interferenza papale. La questione è però più complicata. Scrive infatti AsiaNews, il portale del Pontificio istituto per le missioni estere, che anche “alcuni cattolici, desiderosi di incontrare per la prima volta il Papa, hanno temuto che la sua visita fosse spinta da ragioni umanitarie e non apostoliche”. Il fatto è che i rohingya non sono neppure riconosciuti tra le 135 diverse etnie che compongono il popolo birmano. Il più duro, tra i vescovi locali, è stato mons. Raymond Gam, titolare della diocesi di Bhamo e, soprattutto, ex direttore della Caritas nazionale: “Il Santo Padre è una persona molto appassionata, tuttavia è necessario conoscere i dettagli di tali eventi (il riferimento è agli scontri in atto nel paese, ndr). Vi sono varie notizie riportate da entrambe le parti e tutte le notizie non sono facili da confermare”. Quindi, l’affondo, sempre in un colloquio con AsiaNews: “Mi preoccupa che oggi il problema dei rohingya è molto delicato dal punto di vista politico e che la scelta delle parole del Papa potrebbe avere un impatto negativo su altre persone. Abbiamo paura che il Papa non abbia informazioni abbastanza accurate e rilasci dichiarazioni che non riflettono la realtà”. E, ancora, “affermare che i rohingya sono perseguitati può creare gravi tensioni in Myanmar”. Il portavoce della Conferenza episcopale, padre Mariano Naing, va perfino oltre: “Vi sono voci che il Santo Padre visiterà il Rakhine e i rohingya. Questo è sbagliato. Se abbiamo mai bisogno di portare il Santo Padre alle nostre persone, sofferenti, lo porteremo ai campi profughi cattolici”.

 

Dietro l’irrigidimento dei presuli locali, che pure hanno invitato Francesco in Myanmar nonostante più d’uno in Segreteria di stato avesse raccomandato prudenza, c’è il timore che la sparuta comunità cattolica locale possa interpretare male certi gesti o discorsi del Pontefice. Una chiesa piccola, “insignificante”, ha detto non a caso il cardinale Charles Maung Bo, arcivescovo di Yangon, commentando l’annuncio della visita papale. Una comunità che si sente stretta tra la diffidente maggioranza buddista e le tante minoranze con cui la convivenza risulta difficile.

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  • Matteo Matzuzzi
  • Friulsardo, è nato nel 1986. Laureato in politica internazionale e diplomazia a Padova con tesi su turchi e americani, è stato arbitro di calcio. Al Foglio dal 2011, si occupa di Chiesa, Papi, religioni e libri. Scrittore prediletto: Joseph Roth (ma va bene qualunque cosa relativa alla finis Austriae). È caporedattore dal 2020.