Rose rosse e candele, adagiate sopra una bandiera catalana (foto LaPresse)

Contro l'operazione rimozione di chi trasforma gli attentati in incidenti

Claudio Cerasa

E’ successo con la strage di Barcellona e continuerà a succedere. Di fronte a un atto di terrorismo, il sistema mediatico tende a concentrarsi solo sulle emozioni. Le immagini che non vogliamo vedere e le radici che non vogliamo accettare. C’entra l’islam, c’entra una debolezza dell’occidente

All’indomani di ogni atto terroristico, il sistema politico, e soprattutto mediatico, tende spesso a portare avanti un’operazione dolce e delicata finalizzata a rimuovere dalle nostre coscienze ogni immagine eccessivamente traumatica legata all’istante dell’attentato. E’ difficile dire se l’operazione sia volontaria o involontaria, ma ciò che conta, e su cui vale la pena riflettere, è che questo approccio, perfettamente rappresentato sabato scorso da Tahar Ben Jelloun che ha praticamente scaricato su George W. Bush le responsabilità dell’attacco a Barcellona, ha una conseguenza importante e porta ciascuno di noi, con il passare del tempo, a rimuovere ogni domanda relativa a quell’attentato. Qualunque domanda relativa alle ragioni di un gesto, alle radici di un attacco, alle motivazioni di un atto. Con il passare del tempo, dunque, la storia è sempre la stessa. A poco a poco, spariscono le immagini, spariscono le ragioni, spariscono le spiegazioni e nella nostra testa restano solo delle pure e mute emozioni. Come se per elaborare quel lutto fosse socialmente necessario dimenticare in fretta quanto successo, per tornare rapidamente “alla stessa vita di prima”. 

  

Nelle teste di ciascuno di noi, pensando alle efferatezze sulla Rambla, agli accoltellamenti sul Tamigi, agli attentati a Stoccolma, alle bombe a San Pietroburgo, ai mercatini di Berlino, ai treni di Würzburg, quello che resta di quelle esperienze, che fortunatamente per molti di noi sono esperienze prevalentemente mediatiche, è un’emozione forte, il ricordo di una storia drammatica, e dopo qualche giorno, nelle nostre teste, di quel momento resterà il numero di morti, il luogo dell’attentato, magari anche il giorno dell’attentato, magari anche il momento del pomeriggio in cui abbiamo saputo quanti erano esattamente i morti. Ma difficilmente, dentro di noi, resteranno immagini come quelle del bambino in fin di vita, disteso sulla Rambla con una gamba spezzata, ritratto da un fotografo pochi istanti dopo essere stato travolto da un furgone guidato da terroristi islamici, nella stessa posizione in cui venne immortalato, e reso eterno, il corpo di un altro bambino, il piccolo Aylan. Aylan, come tutti sappiamo, era un bimbo di tre anni morto annegato sulle spiaggia di Bodrum, in Turchia, nel tentativo di raggiungere l’Europa. Tra qualche anno, in molti ricorderanno da cosa fuggiva quel bambino e cosa cercava quel bambino. In pochi, tra qualche anno, ricorderanno invece da cosa fuggiva quell’altro bambino, falciato dai terroristi senza aggettivi. Ricorderemo certamente che quel bimbo scappava da alcuni stragisti. Ma nel ricordare quell’istante, l’aggettivo che ci tornerà in mente con più facilità sarà un aggettivo che ci permetterà di dormire sonni tranquilli e che proverà a inquadrare il fenomeno con le categorie più dell’irrazionale che del razionale. Erano dai pazzi, diremo. Erano degli squilibrati, ricorderemo. Erano dei fuori di testa, penseremo. Non diremo invece quello che in molti tendono a rimuovere all’indomani di un attentato terroristico, di una strage di matrice islamista: perché quegli stragisti hanno scelto di uccidere degli infedeli.

 

 

Se non si vuole lasciare al cialtronismo populista il monopolio sulla discussione relativa alla radice religiosa di ogni attentato di matrice islamista, sarà necessario iniziare a chiamare rapidamente le cose con il loro nome e sarà importante cominciare a denunciare con intelligenza ogni tentativo di rimuovere le radici religiose di un atto terroristico non per alimentare l’odio contro i musulmani ma per fare l’esatto opposto: per smetterla di considerare dei folli tutti quei musulmani che ogni giorno provano a denunciare senza grande successo e senza grande seguito nelle proprie comunità l’orrore del fondamentalismo islamico e l’efferatezza della legge coranica. I meccanismi perversi che vengono attivati dall’islamicamente corretto, all’indomani di una strage di matrice islamista, tendono sistematicamente a silenziare molte di quelle voci che provano in tutti i modi a spiegare che negare le radici islamiche dello Stato islamico è un clamoroso autoinganno che porta a indebolire le difese immunitarie dell’occidente. E spesso sono proprio questi tic scellerati ad alimentare sentimenti di profondo disagio come quelli manifestati sabato scorso a Barcellona dal rabbino capo della città, Meir Bar-Hen, che con rassegnazione ha affermato che a causa dell’islam radicale, e a causa dell’incapacità delle autorità a confrontarsi con esso, la sua comunità è ormai “condannata”, e per questo ha invitato gli ebrei di Barcellona “a pensare di non essere qui per sempre”, a “comprare proprietà in Israele”, prima che sia troppo tardi, “perché questo posto ormai è perso”. Si potrebbe arrivare a dire che l’incapacità delle istituzioni, politiche e culturali, di mettere a fuoco il legame forte che esiste tra il terrorismo islamico e l’interpretazione radicale di alcuni passi del Corano alimenti la percezione di insicurezza che esiste nelle nostre società.

  

Ma il ragionamento è ancora più sottile, e forse ancora più profondo, e per questo sarebbe utile imparare a memoria uno sfogo molto bello, e purtroppo poco valorizzato, che un grande studioso dell’islam, il marocchino Abdellah Tourabi, ha affidato sabato scorso alla sua pagina Facebook. “Ogni volta che si commette un attentato o che il mondo scopre un’atrocità commessa dall’Isis – scrive Tourabi, politologo, giornalista, ricercatore a Sciences Po a Parigi – si sentono immediatamente affermazioni del genere. Si sente dire: ‘Tutto questo non ha nulla a che fare con l’islam’, ‘gli attentatori non hanno mai letto il Corano. Questi argomenti sono spesso mossi dalle migliori intenzioni, e sono sinceri, ma purtroppo sono falsi e intellettualmente disonesti: non aiutano né a comprendere la realtà né a fare un passo in avanti per uscire da questo stallo storico in cui il mondo musulmano si trova oggi”. Sfortunatamente, continua Tourabi, “i fanatici che uccidono in nome dell’islam agiscono all’interno del perimetro dell’islam. E le loro convinzioni, le loro azioni e la loro visione del mondo sono una replica perfetta di quello che fu l’islam delle origini. I seguaci dell’Isis applicano il Corano alla lettera, fanno di questo il fondamento stesso della loro vita quotidiana, e vogliono riprodurre integralmente la prima forma politica conosciuta dell’islam: il califfato. Il loro universo è certo e anacronistico, ma corrisponde a una realtà che è esistita 14 secoli fa. Negare o rifiutare di riconoscerlo sarebbe una cecità”.

 

E la ragione di tutto questo è semplice. Drammaticamente semplice: “I testi religiosi sono l’alfa e l’omega dei soldati dell’Isis. E come altri gruppi jihadisti, i soldati dell’Isis giustificano le loro azioni con riferimenti al Corano e alla sunna. I loro documenti, i loro comunicati e i loro libri si basano su versetti del Corano e si rifanno a un contesto particolare della storia dell’islam, quello segnato dalle guerre del profeta Maometto a Medina”. Il politologo marocchino ricorda che i jihadisti che uccidono gli infedeli per il semplice fatto che essi sono infedeli lo fanno non sulla base di un atteggiamento folle ma sulla base di un principio scritto nero su bianco nel Corano [2:191]: “Uccideteli ovunque li incontriate, e scacciateli da dove vi hanno scacciati: la persecuzione è peggiore dell’omicidio. Ma non attaccateli vicino alla Santa Moschea, fino a che essi non vi abbiano aggredito. Se vi assalgono, uccideteli. Questa è la ricompensa dei miscredenti”. E ancora: “Quando (in combattimento) incontrate i miscredenti, colpiteli al collo finché non li abbiate soggiogati, poi legateli strettamente. In seguito liberateli graziosamente o in cambio di un riscatto, finché la guerra non abbia fine. Questo è (l’ordine di Allah). Se Allah avesse voluto, li avrebbe sconfitti, ma ha voluto mettervi alla prova, gli uni contro gli altri. E farà sì che non vadano perdute le opere di coloro che saranno stati uccisi sulla via di Allah”.

 

 

Per questo e per molte altre ragioni, dice Tourabi, è un errore parlare di follia quando si parla di Isis. E’ un errore rifugiarsi nella retorica della cospirazione. E’ un errore rimuovere le radici del problema. Perché rifiutarsi di individuare le radici del male è il modo migliore per non combattere fino in fondo il male, chiudendo gli occhi su quello che è il messaggio sia del politologo marocchino sia del rabbino capo di Barcellona. Gli islamisti vogliono trasformare l’Europa in una nuova Gaza. E se non ci renderemo conto fino in fondo che l’attacco portato avanti dagli islamisti alla nostra civiltà ha le stesse radici degli attacchi portati avanti ogni giorno contro Israele, continueremo a non fare tutto il necessario per difenderci da quello che non è solo un gesto di qualche pazzo isolato, senza aggettivi, ma che è semplicemente un attentato quotidiano contro la nostra civiltà.

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  • Claudio Cerasa Direttore
  • Nasce a Palermo nel 1982, vive a Roma da parecchio tempo, lavora al Foglio dal 2005 e da gennaio 2015 è direttore. Ha scritto qualche libro (“Le catene della destra” e “Le catene della sinistra”, con Rizzoli, “Io non posso tacere”, con Einaudi, “Tra l’asino e il cane. Conversazione sull’Italia”, con Rizzoli, “La Presa di Roma”, con Rizzoli, e "Ho visto l'uomo nero", con Castelvecchi), è su Twitter. E’ interista, ma soprattutto palermitano. Va pazzo per i Green Day, gli Strokes, i Killers, i tortini al cioccolato e le ostriche ghiacciate. Due figli.