Mattia Ferraresi (foto LaPresse)

Così la Chiesa sa coniugare una visione globale con un'attenzione locale

Parla Scott Appleby, decano di Notre Dame

New York. Due visioni del mondo si fronteggiano. Una è quella liberale, una forma di universalismo che corre verso un destino fatto di connessioni globali e istituzioni democratiche sopranazionali, la società aperta e cosmopolita che permette a Barack Obama di abbracciare sinceramente il progetto politico di Angela Merkel, trascurando le ovvie differenze programmatiche. L’altra visione è quella identitaria o particolarista di Donald Trump e Vladimir Putin, di Matteo Salvini e Marine Le Pen, di Narendra Modi e Frauke Petry, i quali sviluppano variazioni, anche estremamente diverse fra loro, dei comuni temi del superamento dell’ordine liberale e della critica alla globalizzazione. La domanda che è al centro di questa serie di interviste è: quale dei due modelli è più congeniale alla chiesa cattolica? Quale organizzazione della società le permette di vivere più liberamente? La premessa è che la chiesa non abbraccia nessuna delle due visioni, ma questo non significa che tutte le visioni siano uguali agli occhi del Vaticano. Dopo gli interventi di Patrick Deneen, Charles Taylor e George Weigel, lo storico di Notre Dame Scott Appleby, decano della scuola di affari globali, dialoga con il Foglio sul rapporto fra chiesa e mondo in questa fase di ridefinizione dei rapporti internazionali.

“La chiesa è essa stessa un’istituzione locale e globale allo stesso tempo, ed è la più grande forza esistente in termini di organizzazione sociale. Si può dire che è la più antica forza transnazionale. E’ globale ma allo stesso tempo è locale, il centralismo rigido è una fantasia inventata da chi non conosce la chiesa e la vuole rappresentare come una monarchia assoluta, e per questa sua duplice dimensione può prendere il meglio dei due modelli che si stanno confrontando. Non essendo né globale e cosmopolitica né nazionalista e chiusa, la chiesa incarna il modello di un network globale con vitalità locale”, dice Appleby. Esiste una linea critica al liberalismo all’interno della chiesa che ora pare farla propendere verso una simpatia per la dimensione identitaria e nazionalista, ma Appleby si cura di mostrare quel è il vero obiettivo di questo attacco: “L’individualismo radicale”. “Da Dorothy Day a Thomas Merton – continua lo storico americano – si capisce facilmente l’incompatibilità fra una visione individualista e il cristianesimo. Occorre dire anche, però, dire che alla base della visione liberale c’è l’illuminismo e questo ha molti aspetti di apertura e dialogo con il mondo cristiano. Esiste, ad esempio, un ponte fra la dignità umana in senso cristiano e creaturale e i diritti umani fissati dal liberalismo. Quando però il liberalismo perde il controllo e corre in modo sfrenato verso la sua degenerazione ideologica e totalizzante, allora il dialogo diventa più difficile”. E’ per reazione al consenso liberal, sostiene Appleby, che i cattolici americani hanno votato in netta maggioranza Trump: “I cattolici che lo hanno sostenuto a mio parere non erano innanzitutto pro Trump ma contro Hillary Clinton e contro la sua visione del mondo, temevano gli eccessi della secolarizzazione e della globalizzazione che lei simboleggia”.

Tuttavia la chiesa, suggerisce Appleby, non deve cedere alla tentazione di “allearsi con i fascismi di oggi, come ha fatto in diversi, tragici casi con quelli del secolo passato”, deve piuttosto ritrovare una posizione originale, imparziale rispetto alle distinzioni ideologiche. I vescovi che hanno diramato ordini di schieramento repubblicano facendo leva sui classici argomenti pro life non riscuotono le simpatie dello storico: “L’errore, a mio avviso, non sta nel contenuto che si propone, in questo caso la difesa della vita, ma nell’accettare di giocare nello campo delle ideologie. La natura della chiesa è un’altra”. Anche per questo Appleby è un fervente sostenitori di Francesco, che con le sue dichiarazioni spesso non lineari, il suo continue zigzagare fra le linee delle posizioni ideologiche precostituite mette tutti in fuorigioco: “Un giorno i liberal lo amano perché sui gay dice ‘chi sono io per giudicare?’, che poi è la frase più fraintesa del pontificato, un giorno lo detestano perché chiude la porta al sacerdozio femminile, e lo stesso vale per i conservatori. Un tratto di questo Papa, io credo, è quello di sottolineare l’impossibilità della chiesa di accordarsi con qualunque profilo ideologico”. 

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